L’avevo chiamata Rosa

Avevamo lo sguardo smunto, io e mia sorella, quello dei bambini poco nutriti, poco coperti. Lo sguardo dei bambini che hanno poco di tutto, tanto di nulla.
Nostra madre ci mandava a prendere il granoturco dalla zia Agata, ma io avevo paura, ogni volta la stessa storia. Passare vicino alla statale che dal paese andava fino a Treviglio era un incubo, perché Pippo non guardava in faccia nessuno, e mitragliava forte.
Pippo era il nome che avevano dato all’aereo che tutti i giorni sorvolava la bassa. Se eri sulla statale a quell’ora, e passava Pippo, eri morto.
Io quella volta non ne avevo voglia, ma mia madre non andava molto per il sottile.
C’era poco da fare, dovevo alzare i tacchi. Tre giorni prima i fascisti avevano fatto irruzione nella cascina; rovistavano ovunque per trovare viveri, anche nella stalla dove mio padre aveva nascosto il granturco. Così avevano portato via il granturco, e anche papà.
Era ritornato la sera, mia madre aveva pianto vedendolo col viso tumefatto. Ma come tutti gli uomini di quel tempo non si lamentava, alla fine era andata ancora bene, la pelle l’aveva portata a casa.
Toccava a me recuperare altro granturco, così misi gli stivali, presi la scrofa e m’incamminai fino al fosso, evitando la statale e camminando con lei dentro l’acqua della roggia.
L’avevo chiamata Rosa, la portavo con me perché se Pippo passava io mi potevo nascondere dietro di lei, stando attento che non mi schiacciasse.
Appena sentivo il rombo di Pippo nel cielo mettevo le mani sotto il ventre di Rosa, le accarezzavo le mammelle e lei, rilassata, si sdraiava. Tra le canne e il suo grande corpo mi potevo accucciare, lo avevo fatto tante volte e io le volevo bene, forse era l’essere cui volevo più bene. È così quando la vita e la morte sono cosi vicine da essere una sola cosa.
Rosa aveva tre anni, io dieci, era più piccola di me, era lei il mio cucciolo.
Piovigginava, così presi il mantello di mio padre, un pastrano di lana cotta abbastanza grande da coprirmi tutto.
Il terreno era scivoloso, vicino al fosso, ma dentro l’acqua mi sarei inzuppato tutto e camminai con Rosa sui margini, cercando di non infradiciarmi completamente.
Finalmente, umidi ma ancora allegri, arrivammo.
Dopo i convenevoli, la zia mi diede il granoturco. Agata era la sorella maggiore di mia madre, ma era molto più dolce, e si preoccupava di più, forse perché lei i figli li aveva grandi e io ero il nipotino gracile; prima di andare mi diede anche una fetta di torta, che misi nella tasca della giacchetta. L’avrei mangiata durante il ritorno dividendola con Rosa, ma senza dirlo a nessuno, come facevo tante volte anche a casa.
Sulla via del ritorno, trovai anche delle erbe che mia madre usava per fare la minestra e mi attardai nel raccoglierle allontanandomi da Rosa per una decina di minuti.

All’improvviso sentii il rombo di Pippo e il sangue mi si gelò nelle vene.
Ero distante dalla scrofa, mollai l’erba e a passi veloci mi diressi ansimando verso Rosa che, immobile, mi aspettava vicino alle canne.
Oramai quel maledetto aereo era quasi sopra di me, sentii da lontano i colpi di mitragliatrice e correvo, correvo con le lacrime, il respiro era sempre più stretto come in una morsa, chiamavo Rosa che, di colpo, si mise a correre verso di me.
Il mio mantello svolazzava, ma ero inzuppato d’acqua e, sconvolto, scivolavo di continuo nel fango.
Nella corsa in mezzo al pantano mi voltai una frazione di secondo e vidi l’acqua, l’erba, i rami schizzare come fuochi d’artificio all’impazzata sotto il tiro delle pallottole.
Per molti anni avrei rivisto quella scena, come al rallentatore.
Mi infilai tra le canne mentre lei correva in direzione opposta, guardavo ammutolito con la melma tra gli occhi e i denti, la mia scrofa che correva nel fango con il mantello stretto in bocca e che per metà la ricopriva.
Pippo volteggiava sparando all’impazzata, lo vidi virare e tornare indietro, smise di fare fuoco e si abbassò accelerando, poi quando fu sopra al fosso attaccò di nuovo e sparò su tutta la linea della roggia.
Rosa si fermò nel mezzo dell’acqua e si girò verso di me con la testa, ci guardammo un’ultima volta prima che si accasciasse sotto i colpi implacabili.
Passò un tempo lunghissimo, lasciai che l’aereo si allontanasse e mi rialzai. Alzai lo sguardo, non so cosa cercassi, tra le lacrime volevo guardare sopra il cielo.
Il corpo di Rosa giaceva crivellato nel fosso, coperta dal mantello di mio padre.
Mi misi steso vicino a lei e piansi un tempo interminabile.
Era sera, ormai, mi trovarono cosi: steso sotto il mantello vicino alla mia Rosa, infreddolito e sporco di sangue.
Mia madre scese nel fosso insieme a mio padre, la vidi piangere in silenzio. Mio padre mi sollevò e mi prese in braccio, fu l’unica volta che vidi i suoi occhi lucidi.
I giorni a seguire furono muti.
Il maiale fu utilizzato tutto, visti i tempi non si poteva fare altro, ma io non toccai nulla di tutto ciò che fu ricavato da Rosa dopo che le tolsero dalla carne tutte le pallottole.
La guerra finì, i fascisti furono poi presi e massacrati senza pietà.
Ora sono grande, ma penso sempre a Rosa, non tocco mai carne di maiale e viaggio in giro per il mondo, con in tasca un piccolo portafortuna, un maialino rosa a cui ho dipinto una macchia nera sotto la gola, proprio come aveva lei. E quando torno a casa passo sempre dalla roggia lasciando una rosa rossa nel fosso, per lei.
Poi riprendo il cammino, raccogliendo le erbe che mia madre usava per fare la minestra.

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