Rudyard

Il mio vero nome è Rudyard. Me lo diede mio padre, ed è un nome assurdo per una donna. All’estero infatti, nonostante la foto, o forse a causa della foto, tutti credono che io sia un uomo. Anche nella città in cui ora abito, veramente, quando esco molto presto, in certe freddissime mattine d’inverno, in virtù del mio abbigliamento, non si potrebbe ben dire a quale genere appartenga.
Ho cercato di non presentarmi mai con il mio nome e nemmeno la lettura di Kim, così premurosamente predisposta nella libreria di mio padre, mi ha mai veramente convinta della bontà della sua idea. Mia madre non poté spiegarmi nulla, a quanto pare andò via molto presto, lasciandoci in quella casa con il tetto di legno, in mezzo al deserto. Non è che abbia qualcosa contro il deserto. Può essere bello, specie quando ci scorrono alcuni tipi di vento, le loro voci sono dissimili e si impara a riconoscerle, soprattutto quando non si ha molto da fare.
Mio padre diceva di possedere un ranch, ma avevamo solo un recinto dove non ricordo di averci mai visto niente tranne qualche cane randagio e alcuni cavalli che poi lui vendeva, e ai quali ero abituata a non affezionarmi. Non posso dire di aver capito subito in che posto particolare mi trovassi. Andavo in giro intorno alla casa seminuda, ed avevo imparato a stare alla larga dai serpenti. La scuola era per alcuni mesi, ma non mi piaceva stare in un posto chiuso insieme ad altri ragazzini che ridacchiavano e per lo più fingevano di stare attenti.
Poi venne fuori quella storia della scrittura. Il giorno lo ricordo. Era carico, il deserto ondeggiava nella calura, rosso. Aspettavo la scatola di latta su ruote che ogni giorno mi raccoglieva per portarmi a scuola. Attraversava il deserto e ad un certo punto svoltava e sembrava puntare sulla montagna. La montagna contrastava l’ardore del deserto, perché non la ricordo mai colpita dal sole, ma piuttosto un’ombra riflessiva, un riparo. Ma poi, di quel giorno, non rammento molto altro, se non le conseguenze e le coincidenze. Perché arrivarono insieme, il mio maestro e quel pacco postale consegnato con distrazione, la cui ricevuta di ricevimento fu firmata con tranquilla superficialità.
Il pacco rimase sul tavolo d’ingresso, e il mio maestro fu fatto accomodare su una poltrona di vimini. La nostra casa non era disordinata, lo era molto di più quando vi campeggiava la mamma, credo. C’era un bell’ordine, poche cose, tutte utili, era confortevole e semplice, come mio padre. Così il maestro, che era giovane quasi quanto lui, parlò del più e del meno, del tempo, della sua città, che era in qualche bel posto freddo intorno a Boston. Poi tirò fuori un quaderno, il mio quaderno, ed io lo osservai incuriosita.
Cominciò a leggere: La mia casa è nel deserto. Noi siamo soli, le persone sono distanti, non abbiamo che qualche cane, e cavalli. Ci sono notti piene di vento ed altre limpide. Mio padre ed io saliamo sul tetto di legno e guardiamo le stelle. Allora penso che c’è qualcosa, in quei momenti, di simile alla pace.Era il mio componimento, lo riconobbi dalle prime parole e andai a rintanarmi da qualche parte.
Non so cosa si dissero, ma mio padre sembrava felice e divertito. Si dedicò a me tutto il resto della giornata e solo alla sera, mentre stavamo seduti sul gradino fuori casa a contemplare il silenzio, si ricordò del plico che aspettava sul tavolo. Andò a controllare. Passò molto tempo e alla fine rientrai perché cominciavo a sentire freddo. Lui stava al buio, seduto accanto a quella scatola ancora avvolta nella carta marrone e legata con dello spago.
–C’era una lettera- mi disse,- era sotto la scatola, attaccata con il nastro adesivo.- Annuii e attesi. –E’ della mamma?-chiesi improvvisamente. Lui alzò il volto e la luce della luna lo sfiorò e vidi che aveva pianto. Era un messaggio della mamma, e non voleva mai dire niente di buono quando c’era lei di mezzo. Eppure mio padre non andò di filato verso la cucina a cercare una certa bottiglia. Rimase seduto e mi sorrise. -Si, dice di tenerle questa roba per un po’, effetti personali dice lei. Va bene, non posso arrabbiarmi oggi, visto che il tuo maestro mi ha detto che sei una scrittrice.- Sorrideva e sorrideva, e non so cosa avrei fatto per vederlo sempre così. Mio padre era tutto, ma non riuscivo a dirglielo.
Insomma, non ci pensammo più, la scatola venne issata sullo scaffale del mio armadio, e per un breve periodo la vita continuò come prima. A scuola niente era cambiato, solo avevo fatto amicizia con un ragazzino della riserva Navajo, appiccicoso, che mi diceva che mi avrebbe sposata e portata a Monument Valley. Era più grande di me, un bel ragazzino dalla faccia asciutta e dagli occhi penetranti, sapeva parecchie cose, di quelle che a scuola non si imparano, conosceva a menadito il deserto e ne parlava spesso. Secondo me raccontava pure delle grandi fesserie, come il fatto di aver tenuto tra le mani il Mostro di Gila, quel sauro velenoso dalle squame perlacee. Naturalmente questo era arrivato alle orecchie del maestro, ed ogni volta che il Navajo prendeva delle cantonate, lui scuoteva la testa e proclamava verso la classe: Heloderma suspectum, capisco, il suo veleno non è mortale, ma, gli effetti sono visibili. Tutti scoppiavano a ridere e il maestro se ne andava tronfio verso la cattedra.
Secondo me il Navajo lo inquietava e non perdeva occasione per umiliarlo. Poi un giorno di caldo insopportabile, tornando a casa, non trovai mio padre e ci mancava poco che non trovassi neppure la casa. I mobili erano a pezzi, materassi e cuscini sfregiati, ogni cosa era stata presa e scaraventata verso le pareti, e camminavo sui frantumi, in un silenzio sospetto. Ogni passo incerto che riusciva a mandarmi avanti risuonava con orrore in tutto il mio corpo. Poi girai di scatto la testa e vidi mio padre che mi faceva segno di non fiatare. Alzando lo sguardo notai che fuori, sul retro, c’era una macchina sconosciuta, e dalla cucina arrivava un borbottio. Mi piazzai dietro ad una parete e mio padre sospirò di sollievo. Mi fece cenno di andare verso il nostro furgone. Uscii volando, più leggera di una farfalla e mi infilai sul fondo del nostro furgoncino, a tu per tu con il pacco che aveva spedito la mamma, nascosto sotto una giacca. Infine, sentivo che mio padre stava avvicinandosi, con il suo passo silenzioso simile al coguaro che da queste parti te lo ritrovi in cortile e non sai come. Era spaventato, era arrabbiato, puzzava come un cavallo. Sganciò il freno a mano e spinse sulla frizione, il furgone cominciò a scivolare verso il recinto, poi mise in moto e per quelli dentro casa nostra fu inutile puntare i fucili e sparare, eravamo fuori della loro portata.
Volevo piangere, ma stetti zitta e buona sul fondo del furgone. Mio padre non avrebbe preso la strada, lo sapevo, conosceva bene il deserto, sarebbe arrivato a Tucson, probabilmente, seguendo una pista che forse solo Joe, il mio amico indiano, avrebbe potuto riconoscere. Infatti nessuno ci seguiva, noi eravamo in un luogo secco, arso, a tratti chiazzato di verde. Ci allungavamo verso il deserto di Sonora, ci spingevamo prima lontani da Tucson per poi deviare di nuovo. Finalmente riemersi al livello dei finestrini. Guardavo fuori, incurante degli sbalzi che subivo ogni volta che trovavamo un pendio o mio padre non riusciva ad evitare un gruppo di cespugli. Lui mi aveva sempre detto che si orientava grazie ai saguari, ma secondo me raccontava storie. Diceva che erano lì da tantissimo tempo, da prima di me e di lui, e che li conosceva, che si era sempre spinto un po’ più in là, negli anni, e aveva osservato il deserto, ci si era ubriacato, e perfino addormentato.
-Chi erano?- chiesi infine.
-Cercavano quello- mi rispose accennando con la testa al pacco traballante vicino ai miei piedi.
-Il pacco della mamma?-
-Esatto-
-Ma non c’erano i suoi vestiti?-
-Si, c’erano i suoi vestiti, e un bel mucchio di bustine-
-Che bustine?-
Lui non rispose, badava alla strada. Stava scendendo la sera, lunghe fiamme rosse riverberavano sul deserto. Il deserto era casa nostra. Ero praticamente nata lì, in una sera come questa, ai piedi di un saguaro gigantesco che stava aprendo i fiori notturni. Mio padre aveva fatto scendere mia madre dal furgone, non c’era tempo per arrivare a Tucson o a Phoenix, o in qualsiasi altro posto civile.
-Entreremo a Tucson da sud- mormorò. Non so se fosse una scelta strategica la sua, già si vedevano le montagne di Santa Rita, diceva lui, e cominciavo ad avere freddo. Il giorno era stato impossibile, a scuola si soffocava, ed ora la notte si presentava gelida.
Avevo fame ed ero confusa. Poi mio padre cominciò a ridere. Non sapevo proprio che gli prendeva:-Non siamo a sud, siamo a Nord, sono le montagne di Santa Catalina- Spense il motore per ridere meglio, con la testa appoggiata al volante. Era ridicolo, pensai, doveva aver avuto una bella paura per scambiare così la strada. L’importante era che fossimo in salvo. E glielo chiesi. Lui continuava a ridere senza rispondermi. Poi riaccese il motore, ingranò la marcia, e disse a qualcuno, non certo a me che ero lì vicina, lo disse urlando: -Meglio così. Voglio arrivare a Tucson entro stanotte. Lei mi deve una spiegazione- Lo ripeté più volte questo fatto della spiegazione. Mi rintanai sul sedile decisa a guardare solo il cielo nero carico di astri luminosi che sembravano rincorrersi al di sopra delle cime del Santa Catalina.
Arrivammo a Tucson in piena notte. Imboccammo la Tucson Boulevard, per poi infilarci a serpente nella Terza Strada, nella Quarta Strada, nella Quinta e così via, superammo un bel mucchio di Avenue per poi fermarci a fari spenti presso la Broadway Boulevard nel parcheggio dell’Ykes Toys.
Era un posto speciale, ma la sera le vetrine erano oscurate da pesanti pannelli di ferro, e il parcheggio scarsamente illuminato. Mi spiacque, ero in fondo una bambina, e mi piaceva starmene a guardare i giocattoli, soprattutto le bici. Scesi dalla macchina mentre mio padre armeggiava con il suo telefonino. Andai girovagando per il parcheggio, lungo il perimetro del locale sperando che almeno uno spicchio di vetrina fosse libero e mi permettesse di sbirciare nel grande magazzino delle meraviglie. Ma c’era solo buio, e cartacce volanti. Non mi ci era voluto molto per capire che mia madre ci aveva data l’ennesima fregatura e stavolta di tipo speciale.
Passò un po’ di tempo. A quell’ora della notte non c’era molto traffico, e ogni tanto si sentiva muovere tra i bidoni dei rifiuti in fila vicino al parcheggio: qualche ubriaco, qualche cane. Infine arrivò una macchina incredibile, una Buick Grand National, azzurra, con i fianchi vistosamente scorticati. Parcheggiò accanto al nostro furgone. Mio padre scese dal posto di guida e si avvicinò alla Buick. La guardò un po’ da tutte le parti. Poi aprì lo sportello e disse:-Scendi-
E così la donna fece la sua apparizione. Lasciò lo sportello aperto e girò intorno alla macchina per mettersi di fronte a lui. Li vedevo dal muretto dove mi ero stesa e forse addormentata. Mio padre era fragile, lo sentivo. Era più alto di lei e la osservava in silenzio. Forse era molto arrabbiato e teso, teneva le mani nelle tasche dei jeans. Lei si addossò sul fianco della macchina e accese una sigaretta. Sembrava tranquilla, padrona della situazione. Lui non la toccò mai. Parlava, frasi brevi da quel ragazzo silenzioso che era: Che altro hai combinato? Ci hai messo in un bel guaio, grazie tante, e in ultimo, con più passione: Non ci pensi a tua figlia, vero?- Come non capirlo, quella era mia madre. Allora tesi le orecchie, per sentire la sua risposta, anche se mi dicevo che non avevo proprio nessuna voglia di ascoltare. Ma lei mormorava, e poi allungava le mani su mio padre, come se niente fosse, come se non fosse mai sparita un bel giorno perché il deserto la faceva impazzire, e perché io strillavo sempre, e perché non era fatta per quella vita.
Invece, le diceva ora mio padre, rubare ad una banda e nascondere la refurtiva in casa nostra è stata una bella svolta nella tua brillante vita, vero? Le aveva afferrato il polso. Era esile, molto pallida, i capelli le ricadevano disordinati sul viso. Non ricordavo niente di lei. Forse una specie di canzone che lasciava a metà prima che riuscissi a prendere sonno. Sbatteva la porta della mia stanza e rimanevo sola ad annusare la pioggia del deserto. Ma forse i miei erano stati solo sogni. Ora era lì e non mi pareva una gran cosa. Intanto mio padre era risalito in macchina e mi chiamava.
-Cosa vuoi fare?- chiedeva lei e intanto posava le sue mani su mio padre, sulle sue spalle, perfino gli carezzò il viso. Poi mi vide. Rimasi a guardarla anch’io, attraverso il finestrino aperto del furgone. Non ci fu un sorriso tra di noi, neppure un cenno con la testa. Salii in macchina accanto a mio padre e smisi di guardarla.
-Che vuoi fare, se vai alla polizia ci condanni a morte- ora sussurrava e si piegava attraverso il finestrino in modo da arrivare con le labbra vicinissima al volto di lui.
-Non pensi a lei?- disse infine leggermente irritata, indicandomi con il mento. Mio padre mise in moto, con calma. Guardava davanti a sé. Ingranò la marcia e poi le rispose:
-E tu? Tu ci hai pensato a lei? Sei tu che ci condanni- Infine fece una conversione rabbiosa e uscì velocemente dal parcheggio, mentre lei gli gridava:
-Ridammi la roba, ladro!- Ci correva dietro urlando frasi del tipo “andate all’inferno”. Sembrava molto patetica, a guardarla dallo specchietto sul mio lato del furgone, e per la prima volta pensai che volevo morire.
Mentre mio padre correva sulla Broadway Boulevard in senso inverso cercai di distogliere lo sguardo da quello specchietto, ma non ci riuscivo.
-Ha ragione- disse improvvisamente, -è lì che andremo se non ci togliamo dalla strada- Correva forte, e non mi rendevo conto di quanto asfalto stavamo macinando e di quanto avessimo invece bisogno di nasconderci da qualche parte. E neppure del perché rimaneva invece incollato a quel rettilineo che attraversava tutta Tucson per perdersi nel deserto. Eppure nessuno ci inseguì, almeno fino all’altezza dell’Albertsons Market. Ci accorgemmo che la Buick di mia madre avanzava, ma che dietro di lei guadagnava terreno una macchina molto simile a quella parcheggiata nel retro della nostra casa. Da lì in poi si scatenò un inseguimento, e mio padre non eseguiva nessuna deviazione, puntava al deserto. Improvvisamente mi venne in mente Joe, e il fatto che abitasse nell’ultimo avamposto di Tucson prima del deserto, e cioè alla Missione dove i suoi lavoravano. Pensai di chiamarlo e di dirgli di avvertire la polizia, che ci salvassero.
Avevo solo undici anni, ancora gli adulti fingevano di fronte a me, mi insegnavano che il mondo ha le sue divisioni eque, tanto di bene e tanto di male, e che alcuni stavano in un recinto piuttosto che nell’altro. Presi il telefono di mio padre che era scivolato sul mio sedile e chiamai Joe. Lui era troppo concentrato sulla guida e non mi faceva caso, ogni tanto mi gridava di non avere paura ed io sussurravo mentre supplicavo Joe di chiamare la polizia. La Broadway boulevard quella sera fu all’altezza del suo nome. Mentre la città diradava sempre più a favore del deserto punteggiato di recinti con all’interno incastonate favolose ville con piscine, il cielo improvvisamente divenne luminoso e si alzò un vento innaturale.
Sopra di noi volteggiavano le pale di due elicotteri della polizia, e una voce tuonante, che sembrava quella di Dio in persona, ci intimava di fermarci. Dovevamo costituire uno spettacolo incredibile, e sfrecciando con il nostro furgone, sul bordo della strada, distinsi con chiarezza la faccia di Joe, quella di suo padre, e il campanile bianco della Missione. La strada stava per finire, sconfinammo nel deserto, ma lì doveva concludersi la corsa. I pneumatici del furgone cedettero. Non so perché mia madre scese dalla sua macchina e ci si scagliò contro. Cercava come una pazza di sottrarci la droga, mentre con calma si avvicinavano quelli che avrebbero dovuto giustiziarci, incuranti degli elicotteri, del finimondo che si stava abbattendo su tutti noi. Mio padre cercò di allontanarla, mentre io gli stavo attaccata alle gambe e cercavo di portarlo via, verso la Missione, verso un riparo, lontano dal deserto che non ci avrebbe protetto più.
Semplicemente fui sollevata da qualcuno, mentre mio padre gridava come non lo avevo mai sentito. Di colpo mi ritrovai dall’altra parte, dalla parte dei banditi, in mano loro. Mia madre si schierò, urlò verso mio padre: – Dacci la droga, presto, che tra un po’ si scatena il finimondo, daccela o sparano a Rudy!-
Trasalii. Ricordavo tutto, la sua voce, la canzone a metà perché credeva che io dormissi, il soffio del suo richiamo: buonanotte Rudy.
Gli uomini, muti, mi tenevano avvinta. Sembrava inutile e chiassoso il roteare degli elicotteri, le intimazioni bibliche, c’ero io, ero io il problema. Mio padre sollevò quel che rimaneva dell’involto spedito da mia madre e lo gettò ai suoi piedi. Lei lo raccolse e si girò verso di me:- Ora lasciala- Ma mi trascinarono via e lei corse assieme a loro. Sentivo il suo affanno, percepivo il suo ultimo sguardo verso mio padre. Quando stavamo per raggiungere le macchine lei ripeté: -Ora lasciala.-
L’uomo che mi teneva si voltò e rise. Lei allora perse la testa e cercò di strapparmi dalle sue braccia. Lui sparò. Saltò in macchina, continuando a sparare, persino verso l’elicottero.
Io ero a terra, al caldo, il corpo di mia madre mi proteggeva. Non feci nulla io. Sentivo il suo respiro che si affievoliva, il suo profumo, la sua mano, che mi stringeva con sempre meno forza. Era notte, e io mi rannicchiai sotto di lei, sperando che durasse a lungo. Una tregua.
Poi la caricarono su un’autoambulanza, mi parlarono, mi accarezzarono, mi restituirono a mio padre per un attimo, poi lui lo portarono in prigione. Rimasi con Joe e la sua famiglia alla Missione, per un tempo incalcolabile. Passavano i giorni e non sapevo nulla. Finalmente mi mandarono a chiamare. Mi condussero al Tucson Medical Center. Appena fuori della stanza piantonata da due poliziotti, rividi mio padre. Era troppo tardi, mi disse. Era comunque riuscita a parlare, a liberarlo da ogni responsabilità. Non aveva mai chiesto di me. Non aveva parlato con mio padre. Ma immagino che non ci fosse proprio bisogno di tante parole.
Siamo tornati al nostro ranch, alla nostra vita. Sono diventata una donna a dispetto del mio nome, e Joe da allora c’è sempre stato nella mia vita. Ora abitiamo a Boston, nella città che fu del nostro maestro. Anche Joe è un insegnante. Quando i ragazzi qui non capiscono qualcosa lui esclama:
– Heloderma suspectum, capisco,il suo veleno non è mortale, ma, gli effetti sono visibili.- E ride fra sé. Era un buon maestro, il nostro. Ha compreso e mi ha rivelato che avrei potuto scrivere, raccontare, parlare con il mondo pur nel silenzio della mia esistenza. Dare voce a mio padre e a mia madre, che, ognuno a modo suo, mi hanno molto amata.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto