«Ma ti te sa cossa vol dir ‘girar col mandriol’?»
No, non lo so e lui lo sa bene. Mio nonno, ottant’anni, protagonista vivace di pranzi quando di buon umore, innesca il noto copione, preambolo a un racconto dei suoi.
È il momento in cui prende forma una qualche immagine lontana che lui ripesca all’improvviso dal cestone delle offerte. Ammonticchiati uno sopra l’altro, i ricordi salgono in superficie senza avvisare, come bolle d’acqua, e mi stupisco, dopo quasi trent’anni, di scoprirne ancora di nuovi. Gli altri li riascolto sempre volentieri, quelli classici ormai narrazione famigliare, li attendo e ne anticipo in silenzio le battute perché io so come vanno a finire.
Ascolta questo!
Una memoria a pois, dove ogni pallino è un frammento curioso. Il tempo rimane un elemento accessorio, sospeso, si sfilaccia, tra un ricordo e l’altro. Tempo imperfetto, un indistinto fu, il tempo dei sogni o degli incubi.
Gli anni della guerra. Sicuro sono quelli.
I più feroci: la fame e una povertà cruda e insaziabile che diventa quasi destino. Gli anni dell’infanzia, una fanciullezza intatta e ostinata che scalcia tra le pieghe della miseria e non si doma.
La storia ci unisce, ci aggancia ancora inconsapevoli dopo tanti anni, rattoppa una relazione spesso tesa e gonfia di incomprensione. La storia, quella dei miei studi e della sua vita, tanto diverse eppure complementari.
«Girar col mandriol non è un complimento! Si dice di qualcuno non particolarmente astuto, rimbambito ecco. Ma la conosci l’origine dell’espressione?».
Plof, bolla che scoppia… dissolvenza.
«Quand’eravamo piccoli si andava nel bosco di Villa Giulia, allora uno dei due grandi polmoni verdi di Trieste, che partiva da Scorcola e si arrampicava fino a su, fino a Opicina. Andavamo là a scovare i mandrioi, i maggiolini, aggrumati sulle foglie degli arbusti di sambuco. Avevamo imparato a distinguere i maschi, verde cangiante, dalle femmine, di colore oliva. Li chiudevamo nel palmo, uno a uno e legavamo sulla zampa un filo sottile. Appena aprivamo la mano loro volavano verso l’alto e noi dietro a seguirli e a tenerli stretti al filo, come piccoli aquiloni verdi. Così ci si divertiva nei pomeriggi estivi, in gruppi di quattro o cinque, a portare a spasso i mandrioi. E sarà che si era non poco buffi, perché da qui si arrivasse all’espressione dialettale girar col madriol, di scarso apprezzamento».
Mi piace questo racconto, mi culla verso un approdo sconosciuto, inimmaginabile alla mia fantasia foderata di ventunesimo secolo, ma che mi sforzo di ricomporre mentre non mi vedo più nei suoi occhi ormai lontani. E provo, in punta di piedi, a dar voce a quel mondo, che è il suo mondo, anche oggi, e che acciuffo per i capelli mentre cerca di scivolare nel silenzio.