Non c’è più neve a Sarajevo, ma fa ancora freddo. Anche là gli uccelli sono tornati a cantare.
Sarajevo e la sua biblioteca andata in fumo con due milioni di libri: Aida, la bibliotecaria, non tornerà più indietro per salvarli.
Anni di assedio, una guerra in cui quelli che tu credevi fossero amici o buoni vicini hanno sparato anche sui più teneri dei tuoi figli; cecchini appostati sui tetti di case abbandonate, o cannoni da postazioni sicure.
Ha ricostruito ponti, Sarajevo, strade e mercati. Tanti ne hanno parlato, ma pochi sono davvero partiti fino a raggiungere la Milijacka infaticabile che l’attraversa; e in quegli anni, quando la città soffriva ed era davvero impervio entrarci, ancora meno quelli che tentarono.
Non ci sono viaggi comodi e voli low cost, di quelli che stai un fine settimana e scappi di nuovo credendo di aver visto tutto. È un viaggio che va pensato per svolgerlo dalla carta geografica alla strada.
Chi c’è stato quando Sarajevo soffriva e sanguinava, e chi ha saputo tornarci dopo senza spaventarsi per quelle ferite, ha detto che è una città bellissima. Possente metafora della miseria umana, della grandezza e della resurrezione di chi resiste, come una Pasqua laica dove non serve più chiedersi in quale cielo e sotto quale nome si è nascosto Dio.
Una parabola comune a tanti di noi vivi. Di noi che, nonostante tutto, della nostra solitudine abbiamo saputo farne roccaforte di gemme inestimabili.
Perciò siamo andati lì, io e la mia compagna a festeggiare i nostri quarant’anni, un’indovina per guida. Ci siamo stati in aprile, perché certe cose si capiscono solo ad aprile, quando uccelli e aruspici si fanno sazi di primavera.