Sono seduta in giardino, e mentre mi bevo un fantastico cocktail di magnesio e potassio, vedo seduta sul gradino, a pochi metri da me, una bimbetta magra, scura di sole fresco e profumata di salsedine che le disegna addosso striature come di conchiglia. Gioca con i sassi del vialetto, cercando di farli finire uno ad uno nei mattoni cavi che lo delimitano.
Mi viene da ridere perché è smirina e si intestardisce ancora di più. Ha i capelli lunghi raccolti in uno chignon scomposto che lascia uscire ciocche di capelli schiariti dal sole e che, con quest’aria leggera, giocano sulla sua bocca e le sue guance.
Vorrei dirle rimani lì, non ti muovere, ferma quel momento magico in cui tutti i tuoi pensieri si concentrano sulla mira e niente inquina quella sequenza semplice.
Ma non posso.
Deve alzarsi, deve fare la doccia per togliere il sale, ma è così buono, lei lo sa perché si lecca sempre le spalle, appena le gocce di mare sono asciugate.
Vorrei proteggerla e suggerirle le cose che imparerà poi schiantandosi contro i muri della vita, vorrei dirle di essere più indulgente con se stessa, che non importa se non riesce a fare centro con ogni sasso.
Ma non posso.
Una voce dall’interno la chiama:
“Mochi è ora di cena e devi ancora fare la doccia”.
Lei corre, con gli occhi che ridono, verso i minuti, le ore e i giorni del suo futuro.
E io non posso dirle niente
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