“Con l’arrivo degli Europei, gli Indiani hanno perso la loro Felicità e la loro Innocenza,” scrive nel 1705 lo storico Robert Beverly, proprietario di piantagioni e schiavi in Virginia.
Il poeta N. Scott Momaday, della tribù Kiowa, primo Nativo Americano a vincere il Premio Pulitzer nel 1969 col suo primo romanzo, Casa fatta di alba, spiega l’innocenza indiana:
“L’indiano sa riconoscere e capire la malizia. Quel che non sa riconoscere né capire è la particolare atmosfera di ambiguità morale e ideologica con cui l’uomo bianco prevale… Ciò che minaccia di più l’Indiano Americano è il sacrilegio, il furto del sacro. Gli Indiani sono stati, e sono, inesorabilmente privati di nutrimento spirituale”.
Abel, protagonista indiano di Casa fatta di alba, ha servito nella fanteria americana in Germania, durante la seconda guerra mondiale. L’esperienza è stata devastante. Abel è entrato nel mondo patriarcale e brutale dei bianchi, e torna al suo pueblo in New Mexico alcolizzato, alienato dai valori spirituali della sua gente. Durante una corsa coi cavalli, è sconfitto da un albino indiano. Credendolo uno stregone bianco, lo uccide col coltello e finisce in prigione. Segue una serie di disavventure a Los Angeles, finché il cerchio si chiude col ritorno al pueblo e alle cerimonie che gli restituiranno l’armonia con la sua terra.
Momaday aveva inizialmente ideato il romanzo come una raccolta di poesie. Il linguaggio è poetico, la terra indiana è percepita coi cinque sensi finissimi di un animale. Ogni parola è evocata per restituire la sacralità perduta. Momaday ha inserito in un genere alieno come il romanzo europeo, la forza della tradizione orale nativa coi suoi miti, con l’uso dell’anafora, ripetizione di parole a inizio verso, tipica dei canti cerimoniali indiani. Anche il titolo Casa fatta di alba è tratto da una preghiera Navajo cantata durante la cerimonia di guarigione “Canto Notturno”. La ripetizione è ipnotica.
Casa fatta di alba,
Casa fatta di luce della sera,
Casa fatta di nuvola scura,
Casa fatta di pioggia, …di nebbia, …di polline…
Risana i miei piedi, …le mie gambe, …il mio corpo,
Risana la mia mente, …la mia voce…
Che tutto sia bello intorno a me
In bellezza finisca.
Dice Momaday: “La tradizione scritta tende a incoraggiare un’indifferenza al linguaggio, una falsa sicurezza nel nostro atteggiamento. Ci prendiamo delle libertà con le parole; diventiamo ciechi alla loro sacralità”. “Le parole sono nomi. Scrivere una poesia è praticare una cerimonia di battesimo. Conferire un nome è conferire esistenza”.
Il romanzo di Momaday segnò l’inizio della “Native American Renaissance”. Giovani nativi, dopo di lui, si sentirono liberi di usare la tradizione orale del loro popolo in forma scritta e in inglese. Il Rinascimento Indiano sbocciò per tutta la seconda metà del ‘900, con autori incredibili: Paula Gunn Allen, Linda Hogan, Simon Ortiz, Gerald Vizenor, James Welch, Leslie Marmon Silko, Joy Harjo (Poet Laureate) e Louise Erdrich, la romanziera nativa più tradotta in Italia. Gli altri, purtroppo, sono quasi del tutto ignorati.
Momaday ha scritto un’antologia lirica, Viaggio a Rainy Mountain (trad. La Salamandra, 1992) colma di epifanie visive e storie del popolo Kiowa. Ha scritto altre raccolte di poesie, tra cui I Nomi, tradotta da Laura Coltelli, grande interprete e amica degli autori Nativi Americani, che ha curato anche la traduzione di Custode della terra, riflessioni sul paesaggio americano (Ed. Black Coffee, 2020). La stessa Editrice Black Coffee ha pubblicato nel 2022 una nuova traduzione di Casa fatta di alba curata fedelmente da Sara Reggiani.
Momaday è il cantore della Terra Madre. “Mi interessa il modo in cui un uomo osserva un paesaggio e ne prende possesso nel suo sangue e nella mente”. “Cavalcare è un esercizio della mente. Ho sognato molto sulla schiena del mio cavallo, uscendo sulle colline da solo”. “Ho imparato a conoscere la terra uscendo sopra di lei ad ogni stagione, entrando in lei finché è diventata l’elemento in cui vivevo la mia giornata”.
“Guardare quel paesaggio di prima mattina, col sole alle spalle, è perdere il senso delle proporzioni. L’immaginazione prende vita e qui, tu pensi, è dove la Creazione è cominciata”. “Era un mondo di colori intensi – canyon scarlatti e mese turchine, distese verdi e sabbie giallo-ocra, nuvole argentee, montagne che cambiavano dal nero all’antracite, dal porpora al grigio ferro. Era un mondo di enormi distanze. Il cielo era così profondo da non avere confini, e l’aria era attraversata da uno sfavillio di luce”.
Scott Momaday è venuto a mancare pochi mesi fa, a fine gennaio 2024, a Santa Fe, in New Mexico. Non riesco a credere che il poeta che ho amato quanto la sua terra non sia più con noi. Ecco le sue parole sull’Indian time: “Per l’indiano esiste una specie di presente prolungato. Il tempo come movimento è un’illusione, il tempo stesso è un’illusione. La terra conferma questa convinzione in calendari di ‘tempo geologico’”.
Momaday non vive più nel nostro tempo lineare, ma vola ogni sera sopra le Rocce Rosse di Walatowa a cogliere l’ultimo sole, e cavalca ogni mattina sui campi vulcanici e nelle caldere delle Montagne Jemez.
Tu sei vecchio.
Ora pensati nell’estate,
in boschetti di bacche mature,
e inoltrati verso il crinale
dove sei nato. Lì aspetta
il tramonto del sole…
Muta te stesso in spirito;
sii presente nel tuo cammino.
Rispetta gli alberi e le acque.
Sii il canto di questo suolo.
(da “Custode della terra”, trad. Laura Coltelli)
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