Non lo so se la scrittura abbia ragioni per ciascuno diverse. Non scrivo per compiacere me stesso o per invenzione: ho sempre scritto a chi era lontano e non c’era, a chi non poteva tornare, a chi non c’è stato e logica vuole che non potesse mancare. La penna traccia sul foglio una riga e vorrei che qualcuno leggesse, ne facesse un cammino. Sono nate, le parole, dalla paura che abbiamo di ritrovarci da soli, di non potere fuggire, di restare costretti, confinati in prigione. Scrivere è fare domande, cercare risposte con tutta l’urgenza in cui si trasforma il bisogno, scoprire una voce che non sapevamo di avere. La scrittura sa insegnare il silenzio, è imparare ad aspettare qualcuno, intraprendere un viaggio, non volere arrivare, avere paura che il giorno finisca perché si è capito che il tempo ha una fine. É l’arsenale di un viaggio per mare per cui non abbiamo parole, armamento, esperienza che basti mille volte per una, ma solo speranza che la luce consuma. Scrivo da sempre a qualcuno che manca, di cui sento imperfetto bisogno. Ogni scrittura profonda è silenzio: nella notte che rimane sospesa, l’ora che continua a mancare al mattino. Anche adesso sto scrivendo a qualcuno, a qualcuno lontano. Non è una distanza che possa avere misura, se mille o un solo gradino più sotto a questo orizzonte che insiste a sfumare: nonostante io scriva, nonostante cammini e la insegua, continua a farsi lontana, a sfuggire alla vista degli occhi, alla penna, alla carta, alle mani, come l’ora di luce alla sera, ogni giorno più breve
[Massimo Salvadori].