Ho approfittato due volte di queste colonne per inviare a Renzi una “lettera aperta”: l’8 dicembre del 2013, dopo la sua vittoria nelle primarie per la segreteria PD e il 31 gennaio 2015, dopo l’elezione di Mattarella alla Presidenza della Repubblica. Questa volta, non oso ricorrere allo stesso strumento. Ciò che voglio dire è opinabile a tal punto da risultare sciocco, addirittura folle. Lo affido, dunque ad una ipotesi assurda: cosa farei io, adesso, se fossi Renzi. Da qui in avanti è come se a parlare fosse lui.
Il 4 dicembre gli italiani decideranno sulla riforma costituzionale approvata dal Parlamento. E’ l’atto finale e decisivo per sapere se raggiungeremo il traguardo inseguito da trent’anni. All’inizio di questa legislatura, ripropose l’argomento, in modo drammaticamente stringente, un Presidente della Repubblica obbligato alla rielezione, di fronte a un Parlamento impotente e consenziente. La riforma – fu detto allora – è il primo obiettivo al quale deve applicarsi non solo il Parlamento ma anche il Governo.
Me la trovai, dunque, fra le mani quando, l’anno dopo, sostituii Enrico Letta a Palazzo Chigi. Quell’impegno non solo l’ho accettato, ma l’ho perseguito con profonda convinzione; e lo dimostrano i fatti. Sono diventato Presidente del Consiglio il 22 febbraio 2014; il 15 aprile – dopo 52 giorni – il Senato ha cominciato l’esame del disegno di legge presentato dal mio governo. Il 15 aprile 2016, la Gazzetta Ufficiale ha pubblicato quel testo che, dopo sei letture, ampiamente e tenacemente emendato, era diventato legge con il voto della Camera di tre giorni prima. In due anni esatti ho esaurito il compito, non semplice, che mi era stato assegnato. Ho cercato di svolgerlo al meglio; anche perché coincide, per me, con la stessa ragion d’essere del mio governo; nonostante abbia fatto altre cose che non mi sembrano trascurabili.
La riforma della Costituzione è una decisione così importante che gli italiani hanno diritto di prenderla senza che nella loro scelta interferiscano altre valutazioni. A sentir molti, l’interferenza verrebbe dalla legge elettorale in vigore dal luglio di quest’anno. Per questo motivo ho manifestato piena e ampia disponibilità a modificarla. Ma non è servito; non è lì il punto.
Inutile che me lo nasconda: il punto sono io, è a me che puntano i fautori del NO. Quelli ai quali importa solo che io venga tolto di mezzo, e quelli che volendo affondare la riforma pensano di riuscirci più facilmente se riescono a trasformare il referendum in un plebiscito su di me. Non hanno torto; infatti, nonostante io abbia accolto il pressante consiglio di Giorgio Napolitano, correggendo mie iniziali intemperanze, la voglia di far diventare quello del 4 dicembre il voto sulla “Rexit” non solo non si è sgonfiata ma monta.
Qui è l’intrico, qui è il nodo; inestricabile. Per consentire agli italiani di decidere sulla riforma costituzionale senza il peso di altre ipoteche, il nodo bisogna tagliarlo, come quello gordiano. Ci ho pensato e ripensato; posso farlo solo io. E ho deciso: lo faccio. Convoco il Consiglio dei ministri e poi vado in Parlamento.
“Spero che la riforma costituzionale sia approvata – dirò – Voglio, comunque, che gli italiani possano decidere senza altre sollecitazioni o preoccupazioni per la testa. E’ il minimo, quando l’oggetto della decisione è importante come una riforma della Costituzione. Per come si sono messe le cose, sarebbe difficile distinguere fra il SI e il NO alla riforma – che è l’oggetto effettivo del referendum – e il SI o NO a Renzi, che molti si ostinano a proporre come prevalente su tutto. Per quanto dipende da me, intendo fare tutto il possibile per rompere questo equivoco deviante. Al termine di questa comunicazione mi recherò al Quirinale per rassegnare le dimissioni. Informerò il Presidente della Repubblica che, qualunque sia l’esito del referendum, non sono personalmente disponibile per nuovi, eventuali incarichi a formare e guidare un governo prima che si siano svolte nuove elezioni per il rinnovo del Parlamento. Questa mia determinazione è tanto più ferma perché coincide con la mia convinzione che debbano essere i cittadini, con il loro voto, ad attribuire la responsabilità del governo. Non mi ritiro dalla vita politica; resterò segretario del PD. Prevedo che sarà comunque necessario mettere a punto le leggi elettorali. Confermo qui che, come segretario del PD, darò seguito alle disponibilità che ho già dichiarato per migliorare le leggi elettorali attualmente in vigore; sia quella per la Camera sia quella per il Senato”.
Così, il nodo sarebbe tagliato. Ma io non sono Renzi. Per fortuna, direi: sua, forse; ma anche mia. Non so, infatti, se da Palazzo Chigi sarei capace di pensare pensieri e pronunciare parole che, dove sono adesso, mi sembrano lineari, convincenti ed efficaci.