Ognuno ha i suoi intimi compleanni. Eventi che a volte graffiano come una spina di rosa, a volte frantumano, come una mazza ferrata. Ti ritrovi il segno sulla pelle, o il corpo smembrato, e comprendi che rimarrà un prima e un dopo. Quella sottile linea, o la cicatrice che rimargina a fatica, diverrà il confine tra quel che eri e quel che sei.
Succede che queste ricorrenze ogni anno diano un’eco.
– Quante volte sei morta fin’ora?
– Io due, almeno due.
La prima volta fu una notte di Primavera, quindici anni fa. Da quieta sera in casa divenne l’incubo reale della morte improvvisa dell’Altro di te. Impossibile non risentire la mazza ferrata sul cuore. Pesante riprendere monca il cammino.
L’altra arrivò molto tempo dopo. Stavolta d’Estate, ma ancora di notte. Chissà poi perché, forse il corpo è più vulnerabile e poco si cura dello spirito, nel flusso ondivago dei pensieri dal reale all’onirico.
La seconda volta che sono morta son passata dalla dolcezza delle mani di un uomo al tuffo nella sua mente, spalancata per me. Lasciò che guardassi il buio dentro di lui e lì precipitai, senza sapermi salvare. Scambiai, nel delirio amoroso, quell’abisso per appartenenza e per spirito affine la fascinazione dello specchio. Io fui lo specchio.
Son morta perché lì fu la sparizione di me.
‘Io sono fatta di luce’ ripetei nelle tante altre notti passate per lui. Scelsi e patii la fatica della salita e dovetti lasciarlo indietro, senza girarmi a guardare. Riemersi volendo capire se per me il tempo era da esser di morte, o da esser di vita. Qualcosa ho compreso.
Il segno rimase un segreto.
– E tu, quante volte sei morto fin’ora?