Caffè freddo.
Zuccherato quanto basta, non troppo che stucca, non troppo poco che ammazza il palato. In un bicchiere svasato di vetro spesso, col fondo pieno.
La signora del bar si è tanto raccomandata: «Riportamelo il bicchiere, eh? Guarda che non li do mai a nessuno, perché ogni tanto mi manca la roba, eh?»
Tranquilla signora, sono attenta e precisa. Le ho già riportato due vassoi e sei bicchieri da tè freddo in meno di una settimana, io.
Poggio il bicchiere sulla scrivania. Mi piace che faccia la condensa attorno: vuol dire che è bello ghiacciato.
La scrivania è grande ma affollata. Come guadagno tanta superficie con poco sforzo? Facile: c’è un gran faldone blu là sulla destra. Lo sposto per farmi spazio.
Deve essere inanimato, il gran faldone blu. Ma solo in apparenza.
Infatti, appena lo sfioro prende vita e vomita una tribù di cartelline di plastica fina, accatastate al suo interno in attesa di uno spostamento d’aria e pronte a scivolare una sull’altra a effetto domino. A riversarsi come uno tsunami sulla scrivania fino a…
Oddio, il bicchiere!
Vola, prima in alto, si avvolge su se stesso più volte, mulinella schizzi di caffè sui mobili, sul pavimento di mattonelle chiare (33 x 33, fuga bianca), sulla mia bella borsa da lavoro in pelle, appoggiata per un momento ai piedi delle sedie imbottite dove siedono i clienti.
Ricade graziosamente su una delle sedie già intrise di caffè ma scivola verso il basso. Non è che non farei in tempo a scattare, allungandomi oltre la scrivania per tentare il salvataggio.
È che non c’è più niente da salvare.
Fragore di vetro infranto in mille pezzi. Chiazze marroni variamente sagomate in ogni luogo. Quantifico i danni.
Prima raccolgo i cocci del bicchiere, poi passo lo straccio, poi lavo i mobili e le suppellettili, poi metto le sedie in terrazza e le lavo col tubo.
Odore persistente di caffè. Durerà per settimane. E non l’ho ancora detto alla signora del bar.
Che voglia avevo di caffè.