Quando Totti esordì in serie A con la maglia che sappiamo tutti, non aveva ancora compiuto diciassette anni, era il 27 febbraio 1994. Questo significa che da poco tempo mi ero separato dalla mia prima moglie, trovando rifugio in un appartamentino che più piccolo non si poteva, su una collina di Roma Nord.
Ora, faccio sincera fatica a ricordare gli eventi personali di quel periodo, avvolti ormai nella nebbia agrodolce del ricordo. Un arcobaleno di facce nuove, amori accesi e subito spenti, amicizie di un giorno e di una vita.
Il punto è che lui, Totti, c’era già.
Mia figlia, allora bamboletta di otto anni, l’ho portata qualche volta allo stadio, ne sono sicuro. Come sono sicuro che con lei, ormai signorina, ci aggirammo ubriachi di gioia per le vie di una Roma imbandierata di giallorosso non per l’alba del millennio entrante, chissenefrega, ma per lo scudetto del 2001.
Mia madre se n’era appena andata. Lei, che aveva un’attenzione, una sensibilità particolare per la cultura popolare e conosceva a memoria i sonetti di Gioachino Belli, aveva individuato immediatamente la natura di autentico genius loci del miracoloso, strafottente biondino di Porta Metronia. Sono sicuro che avrebbe accettato l’invito ad assistere di persona, con me, al match che consegnò alla Roma, alla città che amava perdutamente, il titolo di Campione d’Italia. Quando Totti segnò il gol decisivo, quasi spaccando la rete che il povero Buffon tentava di difendere, tra i cuori che, a milioni, gli giurarono eterno amore, c’era certamente anche il suo.
Pochi momenti come questo belli, tra quanti l’odio consuma, e l’amore…
Quando Totti cominciò a giocare, nel 1994, il mondo era davvero diverso. Tanto diverso che oggi si realizzano delle serie tv dedicate a quegli anni, nel tentativo di raccontare avvenimenti oscuri, il cui effetto perdura e aleggia ancora sul nostro paese.
Anche io ero diverso. Le mie convinzioni politiche erano ancora quelle di un ragazzino di quarant’anni che credeva nelle ideologie: o di qua o di là.
Non avevo capito nulla. Non sapevo che l’unica stupida, insensata convinzione da quattro soldi destinata a durare nel tempo è quella che ti lega a una squadra di calcio.
Non immaginavo neanche lontanamente che vent’anni dopo avrei portato allo stadio un altro figlio, ormai grandicello anche lui, con la faccia dipinta dai segnali di guerra giallorossi. Che uno dei nostri ricordi più belli resterà quel giorno, in cui un uragano infernale fece sospendere il match che la nostra Roma stava perdendo malamente con la Sampdoria. Quel pomeriggio, bagnati fradici, delusi dal risultato e incerti addirittura sul proseguimento o meno della partita in un campo che non era più un campo ma un lago color argento, tenemmo duro insieme.
C’era anche Totti con noi, ancora una volta. Segnò su calcio di rigore il gol della vittoria, nel lago argentato, al 97°.
Ecco perché ho scritto questo pezzo. Perché mi sono accorto che Francesco Totti, nella mia vita, c’è sempre stato. E chi c’è sempre stato c’è poco da fare, continua ad esserci.
Sempre.