Senza nome, senza età, senza denti. Senza parenti o amici che si interessino alla sua sorte. Senza nemmeno una camicia da notte, senza niente. Un mucchietto di ossa nel letto d’ospedale, il viso scavato, i capelli radi e biondicci, forse tinti, che s’irradiano sul cuscino, il tubicino della flebo attaccato al polso scheletrico. E la giaculatoria che ripete 10, 100 volte: fatemi vedere il mio bambino – ripete ossessiva – un’ultima volta, fatemelo vedere. E il bambino lo vede davvero nel suo delirio: che bel piccolino – lo sguardo perso in un punto ipotetico della stanza – e sorride con la bocca cava.
Stamattina stranamente dormiva (l’avranno bombata di tranquillanti), il corpo abbandonato nel sonno. L’hanno svegliata perché è arrivato il pranzo, sempre lo stesso: semolino, omogeneizzato, mousse di frutta. Le hanno sbattuto il vassoio sul tavolino, tutte le inservienti troppo occupate per aiutarla. Ma lei s’arrangia, la fame è atavica. S’arrabatta col cucchiaino e quando sul piatto di plastica sono rimaste poche tracce di cibo, slappa ciò che rimane con la lingua. S’imbratta però: il petto ossuto, il collo, il lenzuolino. Oggi l’aiuto un po’, le porto un tovagliolo di carta, e lei coscienziosa si pulisce. Grazie dottoressa, mi dice – per lei son tutti medici – e quando m’avvicino di più per farle bere dell’acqua – che buon profumo che ha, aggiunge. Mi rivolge uno sguardo limpido e grato. Dimentico la bocca cavernosa, e il tanfo di miseria che trasuda. Negli occhi mi resta solo l’immagine di una piccola signora senza nome.