illustrazione di AGLAJA

SIAMO PICCOLE API

«Ricordo un ragazzo siciliano, di cui ero diventato amico. Si chiamava Mandarino di nome. Lui forse era il più orfano di tutti; essendo di Agrigento, i suoi genitori avevano grosse difficoltà a venire a Bologna, il che non accadeva più di due volte l’anno. Non c’è bisogno di tanti commenti. Mi sentivo fortunato ad avere vicino la mia famiglia una volta alla settimana, e se piangevo quando andavano via, era soprattutto per il turbamento che provocava in me quella che allora consideravo mancanza di sensibilità da parte della famiglia del mio amico Mandarino.

[…]

Essendo stato tra i primi a entrare in clinica, le infermiere mi conoscevano bene e io mi ero fatto le mie preferenze; Gianna su tutte. Lei era la migliore per gentilezza e per la cura che dimostrava nei nostri confronti: aveva sempre un sorriso per tutti e una delicatezza non propriamente condivisa dalle altre. Ricordo con chiarezza il momento dei pasti, quando Gianna ci imboccava usando la forchetta con l’attenzione di una madre verso il proprio figlio, mentre alcune altre sembrava maneggiassero un forcone per dare da mangiare a delle mucche.
Io spesso chiedevo un cucchiaio che mi evitasse di essere inforcato come un pagliaio.

[…]

Era primavera, la nona trascorsa nell’istituto, era il 1979, e ne conservo ancora qualche bel ricordo. Un giorno, per soddisfare la mia curiosità di andare al secondo piano dove alloggiavano i seminaristi, Rosanna acconsentì a portarmici.
Superate le difficoltà dovute a un ascensore troppo stretto per trasportare la carrozzina, il premio che ci stava aspettando fu davvero notevole.
La cappella era stupenda, umile e povera di fregi e ornamenti, ma impreziosita da una medesima, palpabile sensazione che abbracciava me e Rosanna, quella di non essere soli e sentire una presenza lì con noi, vicina a entrambi.
Rosanna si fece il segno della croce, anch’io avrei voluto, ma, non potendo usare le mani, istintivamente e quasi con una tardiva presa di coscienza la mia testa si mosse disegnando nell’infinito di quel luogo una croce.
Non so ancora bene se ci sia stato un “quid celeste” in quel momento dentro di me: fatto sta che per la prima volta mi ero fatto il segno della croce e in quel modo.
Dopo fu solo il silenzio e potevo sentire tutta la magnificenza e unicità di quel momento. Quella fu l’unica volta nella mia vita in cui ebbi la reale sensazione di non essere solo nel mio dolore.

[…]

Come piccole api inesperte un giorno usciremo fuori dall’alveare impauriti dai pericoli, dai pensieri della gente, dalla normalità, ma un’idea avevo ben chiara, quella che avrei dovuto lottare per esserci. Quello che non potevo sapere era se mi avrebbero accettato; questo superava tutti i miei sforzi. Sono una persona che in questi anni ha combattuto per vivere nella società cercando di integrarmi tra la gente; forse al primo contatto sono un po’ a disagio e aspetto di vedere la reazione di chi mi è di fronte, in fondo non è quello che facciamo tutti davanti a un estraneo?

[…]

Arriva la mattina, mi sveglio e penso che mi devo operare. Avevo fame, ma ero a digiuno per via dell’operazione. Mi facevo forza: oggi tocca a me soffrire, ieri è toccato all’Italia. In sala operatoria c’era ancora sotto i ferri un bambino che stava finendo l’operazione. Nel frattempo avrebbe lavorato la mia anestesia. Prima di addormentarmi ho visto che tra i ferri c’era il mio forcipe. Lo guardavo, sembrava una mano. Era la prima volta che ne vedevo uno e l’ho riconosciuto perché avevo ascoltato con attenzione quando ne parlava la mamma. È terribile nascere così, ma, tra tutti, forse non sono stato il meno fortunato: se il forcipe avesse preso il cervello, se non avessi avuto capacità mentali e avessi potuto camminare, probabilmente sarebbe stato peggio.
La gente crede che io non capisca, anche un bimbo penserebbe che io non capisco per il fatto che sono sopra una carrozzina e non posso parlare.
Ho una bella fortuna a non parlare: quanti ne avrei fatti stare zitti se avessi avuto la voce. Parlo di quelli che non pensano a casa loro ma pensano a casa degli altri».

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