Anche la macchia di inchiostro da tatuaggio sulla camicia da notte rosa antico è indelebile. La signora della tintoria mi ha delusa: «Non viene via, forse se me l’avesse portata subito, ma era comunque molto difficile».
Restavo china ogni sera a massaggiare l’incisione fresca sul tuo braccio, ripassandola con il bordo delle labbra. Mi hai rifilato una delle tue mille bugie: «Basta metterla in lavatrice, figurati». Tu però per i tuoi vestiti firmati, come per tutti gli oggetti, avevi una cura malata; quelli da usare, scoprii, erano gli esseri umani.
Il tuo corpo era così troppo giovane, alto, tutto muscoli e tatuaggi, e aveva risvegliato il mio. «Ti ho cercata e ti ho trovata», dicesti, gli occhi guizzanti di ossidiana.
La passione è ladra e padrona: singhiozzavo di perplessità e inadeguatezza, duellavo sconfitta contro il mio arrendevole attenderti, ma quando addormentandoti, stringevi le mie gambe e mi accarezzavi il profilo del viso, io mi volgevo alla foto di mio padre sillabando «grazie» ad alta voce. Che tregua bizzarra mi aveva mandato il mio austero genitore, un ragazzo con una generosa licenza di terza media, un passato già duro, inquietante.
Ascoltavi orrenda musica neomelodica, scandalizzato che mi piacesse Mademoiselle di Sfera Ebbasta, ma la facevi partire per rabbonirmi e chissà mai quando riuscirò a non piangere sentendola. Caparbio, per vedere il film su Stefano Cucchi ti sei abbonato a Netflix in gran fretta, proclamando solenne: «E non dimenticare mai che questo film lo hai visto con…» e pronunciavi i tuoi due nomi anteposti al cognome.
Riuscii con orgoglio a farti seguire Schindler’s List, fino alla fine, contrabbandandotelo come un film di guerra. E scherzavo: «Scriverò una serie per Netflix e avrai un ruolo importante»
«Davvero? Io…» e giù l’elenco anagrafico, come usi fare.
«Non si può. Per legge. Ti cercherò un bel nome».
«E quale?», ma io già stavo balzando sul tuo letto cigolante, troppo piccolo per due. «Eccola, il koala!», esclamavi fra il rassegnato e il compiaciuto.
Il mio corpo, dopo minimi segnali, si è disseccato di colpo quando si è staccato dal tuo. La tua assenza e il tuo silenzio mi hanno sepolta.
Nell’altrove sintetico dell’oppiaceo ti ho sognato: come si sognano i morti. Con la stessa fame, lo stesso disincanto del sogno lucido, la lacerazione finale prolungata nel risveglio. La mia vita è una distesa di croci: lutti, case abbandonate a forza, estreme rinunce. Sono morta a tante città, a tante cose, che sognarle è un incubo. Per le convenzioni sociali, che così poco pratichi, tanti addii si sono consumati tacitamente, con la speranza di un domani.
Tu mi hai inflitto un altro lutto, senza appello: «Ciao, non cercarmi», in risposta al mio messaggio sul tuo amato Instagram. La terribile sentenza di volermi morta per te: la parte uccisa è come una cancrena. Mi sfinisco di fatica spesso inutile per combattere contro i ricordi, sognarti è stata una amabile maledizione.
Eri bello nel sogno, di quella bellezza così lontana dai miei canoni, bello come le notti che vegliavo sul tuo sonno come su una cassaforte, bello come la sera che mi avevi già squartata e dissanguata eppure, sorprendendomi, hai camminato con me nella tramontana, tollerando – tu incarnazione dell’insofferenza – l’attesa infinita del mio autobus, con l’ubriaco che ci chiamava “ragazzi” e io gelavo e ridevo e adesso che ci penso non mi hai nemmeno baciata in fronte.