Non si discute: sono un imbrattatore incazzato. Quando scende la notte, la più fonda, mi preparo. Aspetto che i miei si addormentino, prendo lo zaino e raggiungo gli altri. I motorini sono tutti lì, parcheggiati. Siamo cinque, ognuno ha il suo colore nello zaino, il mio è nero, Marco ha il rosso, Carmine il verde, Marietto l’argento e Remo il blu. Abbiamo la felpa con il cappuccio, che si tira su al momento giusto, che Roma è tutta una telecamera a circuito chiuso, e poi ti riconoscono e finisce che ti mettono a ripulire le scritte degli altri gruppi. Lo sfregio, il peggio. Sulle scritte degli altri noi ci scriviamo sopra. È così che si stabilisce il territorio. A noi i muri lisci, facili facili non piacciono, quelli che sono appena restaurati, che gusto c’è, è come scrivere su una lavagna. E nemmeno sprechiamo tempo a disegnare sui vagoni della metropolitana. Noi facciamo i portoni del centro, quelli di legno, una sigla e via al portone dopo. È fichissimo, il massimo è farli tutti, proprio tutti. E poi ci arrampichiamo sulle tettoie, ci aggrappiamo alle inferriate, uno sulle spalle dell’altro. Una volta Marietto ha raggiunto il terzo piano attaccato al tubo dell’acqua, e poi ha sparato tutta la bomboletta. E l’argento pareva la luce della luna. Perché Marietto è un maestro, cinque secondi e mette il segno, il suo inconfondibile. Andate a vedere certe saracinesche dietro Termini, o quelle di Viale Trastevere, che è lungo e da gusto. Sulle saracinesche siamo tutti d’accordo, ognuno spara la sua firma, cinque colori come le olimpiadi. La parola imbrattatore l’hanno usata in televisione, ma noi siamo Writers, sissignori, perché io scrivo, è come un pensiero ristretto, un marchio che mi fa riconoscere in tutta la città. Non è mica uno sbafo, è un ghirigoro, una D ritorta su una W, ma solo per chi lo sa interpretare. L’ho inventata io, è fichissima, mi sono allenato sul muro dell’istituto professionale dove studio. I muri delle scuole sono le palestre dove si studia meglio, sono come quei fogliettini sui quali provare le penne, uno zig e zag dopo l’altro, ormai non li ridipingono più, fatica sprecata, non durano un pomeriggio. Il vero segreto, l’abilità è non staccare mai la mano dal pulsante della bomboletta, non si ragiona, si fa per istinto. A me piacciono le vetrine, sì il vetro che è trasparente e si può guardare da dentro e da fuori. Così lo vedono tutti. Perché cancellare la vernice di una bomboletta non è mica facile, si attacca come una colla, resiste al sole e alla pioggia. Quando spruzzo, l’odore che esce con il getto mi droga, è il mio odore nel mondo, e il nero che si imprime sul marmo di qualche monumento un godimento. Quando con gli altri ci prendiamo una statua, la facciata di una chiesa arriviamo al massimo, sfidare le telecamere e la polizia, sfidare per esistere, spruzzare per esistere, se no, come faccio? Comunque a me non frega niente che la gente si incazza, che ha speso per rifare le facciate e noi piombiamo come falchi dopo il passaparola, via libera, c’è da divertirsi. Non me ne frega niente dei monumenti che se ne stavano lì uguali per secoli, finché siamo arrivati noi, e Marco svuota la bomboletta rossa che sul marmo risalta ancora meglio. Non me ne frega che siamo un problema, che il comune prova a cancellarci, che con le scritte roviniamo la città. Tanto a me non me ne frega proprio di niente.
“Questi racconti fanno parte di una serie scritta per L’Unità diversi anni fa. La Rivista Intelligente ha deciso di ripubblicarli per la loro valenza tragicamente attuale oggi, un tempo di devastazione, menefreghismo e di violenze sulle donne.” V.Viganò