Il mio armadio rifiuta le camicie bianche. Non mi donano. Né mi donerebbe un pulpito.
Le camicie bianche le indossano i ragazzini dell’Onda in Die Welle di Gansel mentre, ammaestrati dal professor Wenger, giocano all’autocrazia mimando una solidarietà apparente, da branco.
Bianco e branco non fanno per me.
Ho amato il rosso delle feste dell’Unità, quando c’erano ancora. Quando avevano un senso. Quando quelle bandiere erano morbide. Mantelli perfetti per i figli dei comunisti che allora, nonostante tutto, erano vivi e vegeti; i bambini. E pure i comunisti.
Ora sono una sindacalista. E non ditelo troppo in giro, se potete. Perché poi la gente mi chiama a tutte l’ore. Anche quando sono in ferie, sul real trono di porcellana, in treno, sulla A4 (magari mentre diluvia, magari in contromano). Mi chiama, si lamenta, si sfoga, chiede consigli, cavilli, articoli di legge e riti propiziatori; e non saluta senza aver aggiunto «No, non mi iscrivo. Alla fine che cacchio fa, in fondo, il sindacato?»
Non ditelo in giro. Né che la Susy Camusso, ogni tanto, m’inquieta. E non per le vili offese a suon di gettoni, cui replica come una lancia affilata, perfetta. Perché è un capo. Siede in alto, in cima alla piramide d’oro.
Non ditelo in giro. Ché conoscere statuti, diritti e lotte operaie, di questi tempi, non è più solo démodé. È rischioso. E le manganellate sul cranio, lo confesso, credo mi donino quanto le camicie bianche.
Non amo gli inglesismi per confondere le idee. Lo spread, il jobs act e la spending review. Non amo i soldi, i Leopoldi, i manigoldi. Sono un’idealista. Una sognatrice. Un panda allo zoo.
Mi sono messa a sindacare per condividere, per informare, per osservare – commossa – una fila di schiene dritte.
Quindi vi prego, non ditelo in giro; ma sono una sciocca. Perché lotto, con la stessa verve, contro i mulini a vento e tutti i Rainer Wenger. Quei folli pronti a chiedere, nella realtà o in un film, «Una dittatura, non sarebbe più possibile?»