Quando il clacson strombazza, lei si sporge con le mani sui braccioli, riprendendosi dallo stordimento del sonno. Allora si vedono due pietruzze in fondo ai fossi anneriti che le bucano la faccia al posto degli occhi.
La pellicola di sudore incarta i seni scoscesi, malamente trattenuti dalla veste, e più su, il doppio mento che Soraia esibisce, neanche avesse un girocollo di perle grosse come percoche.
Abbandonata sulla sdraio a strisce, un ombrellone sbilenco la ripara dal sole, sul tratto di battigia che ha per mare l’asfalto crepato di una strada verso i campi deserti.
Ogni tanto una macchina rallenta. Lei riconosce il rumore delle ruote e già sa se vale la pena di sforzarsi e contrattare o se non è il caso di continuare a fingersi una carcassa tra le tante, così magari non le danno fastidio: soprattutto i guaglioni, che le gridano “nonna!”.
Poi un finestrino si abbassa, un gomito si affaccia. «Spòsame» sente dire. Scatarra e senza muoversi dalla sedia agita il braccio e fa un gesto osceno.
L’altro sghignazza e fa segno di no. «Voglio sulamente parlà».
«E vai dal prete» dice Soraia. Pesta le consonanti con l’accento straniero, la sola cosa esotica che, insieme al nome, l’è rimasta.
«Saglie, Sora’, te porto a fa ‘nu giro».
«E perché?»
«Accussì, pe’ fa vede’».