Guido verso casa, poco dopo mezzanotte. C’è nebbia degna di questo nome, al punto che temo di mancare l’ultima svolta. Vado piano, sguardo incollato alla riga bianca.
Colgo un particolare con la coda dell’occhio. A destra, più in basso della strada, intravedo delle lucine intermittenti. Ma non c’è niente, lì. Spero non sia quello che credo. Invece è proprio quello che temevo: una macchina ribaltata nel fosso, con le doppie frecce accese.
In quel punto è un vero canale, più alto di un uomo.
Parcheggio alla boia su un passo carraio, torno indietro a piedi. Faccio mente locale: non ho niente con me, né stivali o vestiti di ricambio, niente. Questo significa calarsi nell’acqua fino al ginocchio, un freddo che spacca le ossa, vestiti inzuppati. Già visto. Non era questo il fine serata che immaginavo.
C’è altra gente ferma, sul ciglio opposto della strada. Un uomo sui sessanta, imbacuccato, e un ragazzo sui venti, in maglioncino, mi vengono incontro: «Tutto a posto, grazie».
Do un’occhiata: la macchina è sdraiata su un fianco, ha il tettuccio schiacciato, le portiere sembrano bloccate. Brutta botta. «C’è qualcuno dentro?», chiedo.
Il ragazzo saltella e si soffia sulle mani. «No no. C’ero io».
Lo dice con un sorrisetto, quasi fiero.
Cos’avrai da sorridere, penso. La macchina, a occhio, è da buttare. Farai le ore piccole al freddo, ad aspettare carroattrezzi e polizia stradale. Domattina ti faranno male muscoli che non sapevi di avere. Nei prossimi giorni dovrai organizzarti per andare a lavorare in corriera, o farti prestare la macchina da qualcuno.
In ogni caso ti è andata di lusso, quindi forse hai ragione a sorridere.
È quell’espressione quasi fiera che non capisco.
Saluto e me ne torno ai fatti miei. Mi rimetto alla guida con un tarlo in testa: dove ho già visto quel sorrisetto idiota?
Metto la freccia e svolto sulla stradina di casa, contento di non essermi dovuto buttare nel canale, che non ci fossero sangue né gemiti. Guardo nel retrovisore e mi torna in mente: nello specchio, molti anni fa.
Attorno ai vent’anni anch’io ho distrutto automobili, allontanato gente che si fermava per aiutare, spiegato a poliziotti di cattivo umore cos’era successo. E la mattina dopo avevo la stessa espressione del ragazzo in maglioncino. Sì, certo, incazzatura a mille per la macchina; residui di paura per quello che avrebbe potuto essere e, per fortuna, non è stato; preoccupazione sul come dirlo a mio padre. Ma anche una specie di orgoglio: un’impresa, a suo modo. Come dire: guarda cos’ho combinato e da cosa sono uscito vivo. Mica da tutti.
Quindi, cosa posso dirti, ragazzo con il maglioncino? Niente, proprio niente. Al massimo “in bocca al lupo”. Ti auguro di non sprecare la fortuna che ti è capitata, di mettere insieme un po’ di buonsenso. Mica tanto, quel minimo che basta per non farti male, né farne ad altri.