Baruch Spinoza passeggiava spesso lungo i canali di Amsterdam. Verso l’ora di cena, chiudeva il suo negozio di lenti nel ghetto ebraico di quella città che ricamava case e quartieri su porti e canali con quella noncuranza maestosa che fa essere grandi senza troppa apparenza anche gli slanci più colossali dell’ingegno dell’uomo. Camminava, solitario e da solo. Seguiva le linee sotterranee e velate che solo la malinconia suggerita dal mare riesce a indicare, la geometria inaspettata e scoscesa dell’abbandono infinito. Camminava, appartato e da solo, lungo le strade affollate di una capitale d’Europa. Commerciale, mercantile ma a quel tempo, persino morale.
Succedeva sempre intorno all’ora di cena. Camminava da solo, rimaneva appartato. Certo la miopia non lo aiutava. Come solo a Venezia succede, quelli non erano solo vicoli e strade, piazze di piccole calli lastricate sopra il vuoto spalancato di sotto nel profondo dell’acqua infernale, ma rive di fiume, di un mare inclinato che invita irresistibilmente più oltre, ben oltre la soglia del confine solitamente apparente che hanno le cose ogni giorno, la forma pigra e sicura del più praticato confine, del quotidiano. Anche l’Atlantide d’Ercole immane, col suo scorbutico scoglio roccioso di sfida, può comparire davanti agli occhi di un miope garzone, intorno all’ora di cena, quando si chiude bottega e si va verso casa. Soprattutto se gli si sono rotti gli occhiali.
Filosofia La venezia del Nord Olanda del '600