Non ero una cima di rapa, ma avevo il mio fascino. E a lei dava fastidio, voleva essere lei la primarapa.
Ero innamorata della vita, dell’amore, aspettavo il mio principe lesso.
Sarei stata perfetta per lui. Ma lei no, non voleva. Verde d’invidia, con le cime fiorite d’arroganza, con quel sapore orrendo se non era gennaio, sola, senza un’acciuga che l’amasse o la volesse, mi relegò in fondo all’orto, dietro lo steccato più alto.
Di notte il desiderio mi bruciava, volevo il mio lesso, e lacrime piccanti scivolavano sopra la mia buccia. Ero una rapa nera, disperata, chiusa nel chiostro… cioè, in fondo all’orto.
Un giorno mi presero e mi portarono a vederlo. Il lesso. Piansi tanto che mi si poteva cavar sangue. Che dolore non poterlo avvicinare. Piccola e nera, ero lì da giorni, disperata, quando entrò lui: lo chef. Altro che lesso, era proprio un bel pezzo di cipresso.
Mi prese tra le mani, mi guardò. Era come se vedesse oltre la mia pelle. Sentii i miei succhi che si rimescolavano. Con mano lieve, fece una leggera carezza alla mia buccia, la tolse; con mano sapiente mi affettò sottilmente.
Tra le mie fette sentii scivolare olio, sale, pepe. Ero felice e lui mi regalò delle scaglie di mandorle.
Pazza di gioia, morii tra le sue labbra.