No, non intendo rivelarlo in che punto del fiume ho scattato questa foto. Non è una foto di denuncia, io non protesto contro il degrado – tanto il degrado è in tutta Roma, e non solo grazie alla giunta comunale, ma anche ai cittadini romani.
Questa che vi mostro è solo una immagine di tenerezza. C’è gente – magari zingari, magari africani, magari clandestini, che importa? – che abita lì, e vive così, in quel minimo angolo selvaggio del centro di Roma, protetta da qualche albero, cresciuto spontaneo da un brandello di terra. Gente che, nonostante tutto, ha abbastanza amore e rispetto di sé per lavarsi la biancheria e stenderla, con ordine e cura. I panni sciorinati al mezzo sole d’autunno mi hanno fatto pensare a una famigliola, rifugiata e nascosta tra acqua e muraglia, così come ha potuto.
Lì accanto passano i battelli dei festosi turisti, galleggiano le eleganti chiatte dei circoli privati, e pittoreschi locali lanciano nella notte, dall’acqua, le loro musiche per il divertimento di irresponsabili gioventù.
Camminando accanto al Tevere con la mia macchina fotografica, a volte dall’alto con il teleobiettivo, a volte spingendomi – impavida – nei sentieri delle piccole giungle cresciute sulle basse rive, di luoghi così ne ho scoperti tanti.
Il Tevere è vita, sporca e vivace, il Tevere è abbandono e sogno, protegge vite segrete e coccola luoghi di privilegio. Il Tevere è il mistero meglio nascosto di Roma, con i suoi muraglioni coperti di scritte semicancellate, con le sue impervie scale di accesso, fetenti di piscio maschile, con i suoi relitti di barche sfasciate che dondolano da decenni – con le sue famigliole perbene che ne percorrono a frotte il lato ciclabile, in compagnia di nutrie e ratti, gabbiani e germani reali.
E di chissà quante altre vite, la mia compresa.