Mio nonno è cresciuto nel quartiere di Zemun, a Belgrado. Ai tempi nelle case non c’era l’acqua, sua madre andava in strada con i secchi per attingere dalle fontanelle che allora coloravano i marciapiedi come fiori. Sembravano dei mulinelli e il nonno dedicò a ciascuna un acquarello. Aveva gli occhi grigi e le orecchie piccole di chi nella vita ha scelto di non ascoltare. Faceva l’aviatore, pensava veloce e parlava piano.
Amava passeggiare per il lungofiume e fermarsi là dove il Sava incrocia il Dunav. Di fronte vi sono alcuni isolotti coperti di cespugli, intorno vi nuotano anatre nere.
Da bambino si sedeva sul rivo con i piedi penzoloni sul filo dell’acqua e lanciava molliche di pane. Le anatre gli si avvicinavano in un semicerchio e si colpivano i becchi l’un l’altra. «Tu morirai» diceva a quella che era arrivata tardi. «Tu vivrai» diceva a quella che aveva saputo afferrare per prima il pane rammollito. Sul lato del fiume c’erano ampie distese di verde. Si arrampicava sui ciliegi e ne raccoglieva i frutti, si appendeva il gambo sulle orecchie e cantava. Si tuffava da un ramo nel fiume e nuotava in senso contrario alla corrente, per finire là dove non si deve andare. Sua mamma lo veniva a cercare, risalendo l’argine sino a dove l’erba è alta e i tronchi si fanno più fitti. «Il fiume dà e toglie» gli gridava, picchiandolo sul dorso delle mani. Poi se lo stringeva al petto. «Sono stata in pensiero», e lui sentiva il calore dei seni.
È morta di parto quando mio nonno aveva nove anni. Era tornato al casale nel tardo pomeriggio, il cielo era grigio e aveva cominciato a piovere forte. A causa di una paura che sembrava presagio aveva corso graffiandosi le ginocchia tra le sterpaglie. La madre era distesa nel fienile, le braccia bianche e le gambe ancora divaricate.
«Scorre, esiste sempre ma non è mai lo stesso» mi ha detto una notte che tremavo di febbre, premendomi uno straccio bagnato sulla fronte. «Per questo motivo non ci si può affezionare mai a un fiume».
Non sapeva intrattenere e non aveva il buon gusto di ridere davanti a una battuta mal riuscita, per questo non aveva amici. Da ragazzo trascorreva le sue sere al bar, seduto sullo sgabello a bere rakija fino a non poterne più. Una ragazza dal sedere pieno suonava la tamburica. Il nonno fantasticava di parlarle, un giorno la chiamava Iruka, un altro Katharina. Immaginava di tastarle i seni o di chiuderle la vita sottile in un abbraccio. La ragazza lo guardava con gli occhi di muschio, faceva roteare le dita intorno allo strumento e sorrideva. Si infilava una ciocca breve dietro l’orecchio e con la lingua, così voluttuosa, si bagnava gli angoli della bocca. Allora mio nonno, preso da un calore improvviso, abbassava il capo e tornava a casa, svelto. Si sciacquava con l’acqua fredda e provava a calmarsi. Respirava a fondo perché i pantaloni non premessero più sul cavallo e pensava a sua madre che aveva il viso ovale da madonna. La ricordava bianca, avvolta in un lenzuolo dello stesso candore, andarsene con un ultimo sguardo d’amore.
Si ringrazia: Association Of Artists and Devotees Siroka Staza.