Non è un cortile di quelli affascinanti, da casa di ringhiera. Nessuna ristrutturazione potrà regalare a queste abitazioni una qualche nobiltà: Milano, palazzi popolari anni Sessanta, la casa dei miei genitori. Varco il portone del condominio che si affaccia sulla strada e mi accoglie una raggiera di vialetti di beole. Si fanno largo fra gigantesche aiuole e conducono a ciascuna delle molte scale del complesso.
Io ci sono nato e cresciuto. L’immenso giardino, un piccolo parco, è stato il luogo privilegiato dove coltivare la mia spensieratezza. Scorribande con caterve di amici: era in atto il boom della natalità. Partite di calcio infinite: il triplice fischio era il tramonto.
Molte cose sono cambiate da allora. Il larice ha raggiunto il sesto piano e hanno dovuto mozzargli la punta. I gelsi, che erano solo dei fuscelli, hanno le fronde che si toccano, un ombrello dove non filtra più il sole. I pioppi non hanno resistito e ne rimangono solo i ceppi necrotici. I bidoni della raccolta differenziata giacciono come policromi totem di un nuovo senso civico. E non c’è più alcun bambino che gioca. Si respira un silenzio cimiteriale.
La verità è che questo giardino non è altro che un non-luogo. È uno spazio che, esaurita la funzione prevista da un certo modello di sviluppo, giace come sospeso. È lo stesso destino riservato alle fabbriche dismesse, ai negozi con le cler abbassate, ai capannoni senza insegne. E agli enormi cortili vuoti.
Dalla scala F spunta una nonna con il nipotino che, come un fulmine, inforca una piccola bicicletta. Disobbedisce, pesta sui pedali, corre e non ascolta raccomandazioni. Io spero che non freni. L’occasione per cadere arriva per tutti, e allora è meglio andarsela a cercare. Un po’ come facevo io cinquant’anni fa, con uguale incoscienza.
E mi sentivo tanto libero.