Thelonious e Mark

 

Thelonious Monk è un mito per chi ama la musica jazz e soprattutto per chi ama il pianoforte. Quando ero giovane non lo conoscevo, ma conoscevo Mark, che divideva un appartamento a Milano con un mio amico.
“Che bravo questo tuo coinquilino!”- dicevo a Giovanni perché le note emozionanti che arrivavano dalla camera dell’invisibile room-mate del mio amico sottolineavano le nostre chiacchiere fino a zittirci. Mark suonava, studiava, lavorava al suo piano e compariva poco. Mi ricordo della coda di cavallo che raccoglieva i suoi capelli, mi ricordo i suoi occhialini tondi, la risata squillante e cristallina, l’allegria e l’umorismo.
Fu lui che mi fece conoscere Thelonious Monk. Non so quando e dove mi disse col suo entusiasmo e allargandosi in un sorriso, che nessuno era come Monk, il maestro. Io registrai.
Ci siamo persi di vista per un po’ di anni e poi un giorno in un aeroporto lo vedo bloccato ai controlli di sicurezza per un dopobarba. Inconfondibile risata, leggero accento americano, fisionomia immutata. Lo avvicino al gate: “Mark Harris?” chiedo timidamente. “Sempre stato!” mi risponde con allegria e riconoscendomi a sua volta.
Avevo perso di vista l’amico ma non il musicista eccezionale che è da 40 anni, uno che che nel panorama della musica italiana è quasi invisibile agli occhi del grande pubblico ma che ha firmato centinaia di arrangiamenti e la direzione artistica di eventi musicali e di trasmissioni televisive seguite da milioni di spettatori. Lo sanno i suoi allievi, lo sanno gli artisti che hanno voluto il suo tocco magico nei loro dischi. Lo sapeva bene Fabrizio De André, col quale ha tanto lavorato, lo sa bene Renato Zero, lo sa bene Antonella Ruggiero con la quale sperimenta nuovi percorsi musicali e vocali. Lo sa bene anche Fabio Fazio, che lo ha voluto direttore artistico dello special su De André e non solo.
Lo aspetto al varco, perché prima o poi uscirà un suo lavoro da solista, tutto suo, e finalmente quel tocco, quel piglio, quella foga scatenata sui tasti e negli accordi verranno alla ribalta in primo piano, eredità di quel maestro di gioventù nella casa di Largo Marinai d’Italia, il silenzioso, schivo rivoluzionario Thelonious Monk, così diverso dal prorompente Mark Harris. Una poetica esuberanza quella di Mark ben nota a chi già lo segue nei concerti degli artisti che accompagna. Ora mi aspetto che diventi unica protagonista.
Io intanto lo supporto a modo mio: quando riesco a invitarlo alimento il buongustaio insaziabile che c’è in lui a suon di sfiziosi menu e ottimo vino. E lui inguaribile goloso suona la musica nella sua testa pestando le dita sulla tovaglia all’inseguimento di qualche passaggio. Chissà, forse proprio quelli del grande Thelonious, così mi piace pensare mentre gli verso altro nettare e gli riempio il piatto col bis. Poi si riscuote, lascia i silenzi di Monk e ci sconquassa dalle risate con una barzelletta o un aneddoto imitando perfettamente i dialetti italiani. I geni, quelli simpatici, sono così.

 

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