“Tien An Men fu decisiva. Non solo intellettualmente, ma in modo che non esito a definire fisico, avvertimmo che non potevamo più chiamarci comunisti, senza perdere il rispetto di cui avevamo bisogno e che sentivamo – almeno in parte – di meritare. Fu così per me; ma non solo per me. Ricordo i colloqui con tanti amici, i compagni, i miei fratelli; e poi, a Botteghe Oscure e dintorni, nelle ore di lavoro o in trattoria, con Fassino, con Mussi, con Veltroni …
Era la fine di maggio. L’informazione sfornava notizie e immagini con un crescendo degno del dramma che andava svolgendosi. Dagli schermi televisivi si diffuse l’immagine che avrebbe tramandato il significato delle giornate che stavamo vivendo; destinata alle antologie, come la bambina vietnamita che fugge nuda dal napalm, come la ragazza di Berkeley che, inginocchiata, abbraccia il compagno esanime, colpito dalla polizia. Era una immagine in movimento: una fila poderosa di carri armati con il cannone ad alzo zero che avanza lungo uno degli enormi viali di Pechino, inconcepibilmente larghi per chi è abituato agli spazi delle città europee. All’improvviso una persona, una sola, si fa avanti: è un uomo giovane; allarga le braccia e, fissandolo, si pianta davanti al primo dei tank, che si ferma, e si fermano tutti gli altri dietro di lui. Restano lì: l’uomo e le macchine di ferro, le lunghe protesi minacciose ma inoperanti, perplesse di fronte alla eventualità di impiegare la loro enorme potenza contro la cosa fragile e inconsistente che hanno davanti. Come nei migliori thriller, il finale è aperto a conclusioni opposte: le macchine possono rimettersi in moto e schiacciare l’impudente; ma è anche possibile che restino lì, indefinitamente ferme e inutili, incapaci di reagire in una situazione per cui non sono state programmate. Stupido chi pensa che il finale sia stato scritto e abbia coinciso con la vittoria delle macchine. Come diceva il Presidente Mao (ma lo sanno tutti i cinesi) per fare un bilancio non bastano cento o duecento anni: ne servono mille e, talvolta, anche diecimila.
Noi non si poteva reggere più. Come potevamo presentarci in giro, parlare dei nostri ideali, dopo quelle immagini, e la repressione che ne seguì? Come potevamo farlo, soprattutto con i coetanei dell’uomo giovane davanti alla colonna di mezzi corazzati? In quattro gatti andammo davanti all’ambasciata cinese a Roma, a protestare. Occhetto prese la parola, urlando, imprecando tutta la sua rabbia. Al culmine dell’invettiva esclamò: voi che fate questo e noi che esprimiamo orrore e condanna non possiamo chiamarci allo stesso modo! Eravamo appena un passo prima del salto, che ci avrebbe fatto abbandonare il terreno sul quale da sempre i nostri piedi poggiavano; ma ancora non era il salto. Cosa voleva dire la frase di Occhetto? Denunciava una distanza enorme; eravamo agli antipodi. Ma, poi? cosa era, un ultimatum ai cinesi perché cambiassero nome, perché non erano degni di chiamarsi comunisti? Non scherziamo. La soluzione non poteva che essere una: riguardava noi e dipendeva dalla nostra volontà.”
(dal mio “rendiconto” pagg 20-21)