Titanic, cabina vista mare

Cara Palmira,

ti scrivo dalla mia cabina vista mare del Titanic, questa prodigiosa macchina varata 17 anni fa per conquistare gli oceani. Peccato che, per adesso, siamo impantanati in acque basse e sabbiose, dove avanziamo a fatica in mezzo a banchi di nebbia: dal mio oblò non si vede assolutamente niente, solo il vapore salato che rende indistinguibili mare cielo e rotta. Ma il comandante, Silvius Papisconis, dice che va tutto bene, che è il migliore viaggio per mare degli ultimi 150 anni e che abbiamo il 72 per cento delle correnti a favore.

Per fortuna c’è il Salone delle Feste, con la sua celebre Orchestra di Palazzo Chigi: suonano ogni sera fino a notte fonda, e a volte – pensa – è lo stesso comandante a mettersi a dirigerla, seduto al pianoforte del maestro Apicella.

Sapessi, Palmira mia, quanto sono bravi. Ci cantano le loro migliori canzoni – “Il Piano per il Sud”, “Una scossa all’economia”, “Semplificazione”, “Il Ponte sullo Stretto”, “Abbassiamo le tasse” – e, alla fine, quando siamo stanchissimi, e nemmeno abbiamo più voglia di controllare dove siamo arrivati, e se siamo usciti dal canale limaccioso dove la pancia del Titanic minaccia sempre di strofinare col fondale e arenarsi in mezzo alle attinie, tra i musi dei barracuda e i galeoni sommersi, suonano con dolcezza una ninna-nanna che ci fa addormentare tutti, dalla prima alla terza classe.

Il Titanic si dondola, bestione fermo in cima al mondo, noi dormiamo e l’orchestra continua a suonare, sola nella notte. Il mare, di sotto, ruggisce sottovoce. Chissà dov’è, il nostro porto.

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