Toh chi si rivede: la sartina

 

Con la crisi cambiano anche la mappa e la tipologia delle botteghe. A Roma, per esempio, nei quartieri borghesi, al posto di boutique e “scarpari” che chiudono a rotta di collo, già da qualche mese compaiono “minisartorie” per lo più gestite da gentili ed efficienti ucraine, ecuadoriane e polacche che, probabilmente, danno forfait dopo anni di professione badante. Dall’altra parte c’è una pletora di signore che giudica “da svenimento” i prezzi dell’abbigliamento, impossibile star dietro alle esigenze vestimentarie dei figli che crescono un palmo a stagione, e defatigante il giro dei mille mercati nei quali si riesca a trovare qualcosa di non orrido e di avvicinabile. E qui siamo al dunque. Nell’era del “tutta di pronto mi voglio vestire” perché oramai la taglia la trova la nana come il marcantonio, l’emula della Traviata come l’eterna vittima dei cinque chili in più, rispunta il desiderio di una figura scomparsa: la sartina. Quella periferica che fino agli anni ’60 aveva un ruolo fondamentale nel “restauro” del guardaroba, soprattutto delle ricche borghesi. E lì c’erano due scuole: quella delle amiche che per nulla al mondo rivelavano l’indirizzo della mitica sartina scoperta in qualche portineria, e quella delle talent-scout che, scovatane una, si scapicollavano a telefonarti: “Ho trovato una sartolina, non sai la bravura, mi ha scollato un vestito nero fatto per il lutto del nonno… è diventato così sexy che lo metto per andare a ballare”.
”Tesoro io oggi vado dalla Negrini (nome naturalmente vero) perché con l’aria di minigonne che tira sarà meglio tirar su tutti gli orli alle gonne vecchie”.
”Cosa diresti se portassi alla Basletta (sartina così chiamata per via del lungo mento) quella camicia che Paola ha comprato dalla Galitzine. È talmente bella che val la pena di farla copiare. Tanto la Basletta la disfa e la rifà tale e quale”.
Si arrivava in comitiva da sartolina, Negrini e Basletta, deliziate oltre che dalla gioia di chiedere l’impossibile in fatto di performance professionale, soprattutto dalla voglia di sentire l’infilata di luoghi comuni e il florilegio di adorabili banalità che uscivano dalle loro bocche. Potrebbero passare altri due decenni, ma è difficile dimenticare l’uso e l’abuso che la sartina faceva del suo repertorio di assiomi per lei collaudati ed incrollabili nonostante il mutare della moda. Ne cito qualcuno: “il pizzo fa cerimonia, il siffon fa importante, il velluto veste, la gabardine fa sciuretta, il drittofilo fa confezione in serie”. Ancora: “il nero sfina, la tasca compisce, la geiscia spiattisce, la martingala solo sul capo da viaggio, come sportivo non c’è che il cammello, è una questione di pinces, l’arricciatura dà grazia, i gemelli fanno cattivo genere“. Avanti: “il rosso fa anche pranzo, non c’è come il godet per star bene, la piuma indurisce, il cannone ingrossa, il giallo ammazza l’incarnato, il corpino è da rientrare, si sente giusto il punto vita? Il petalo fa cocktail, la stola la porta anche la Grace, quel che ci vuole per questo modello è l’imprimè”. Le ucraine, le ecuadoriane, le polacche sono bravissime ma chi ci sciorinerà mai più queste amabili banalità in fatto di moda?

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