Vengo da una pioggia finissima e ordinata ma senza fine, scandinava . Volo. Arrivo. Esco nella stazioncina dei calessi, dal nome minuscolo, Ciampino. Il sole splendente è calato alla fine del tramonto, lasciando una densità calda che toglie il fiato. Vado alla postazione dei taxi e con sollievo vedo un arco di macchine bianche parcheggiate. La prima è la mia. Trascino la valigia, guardo. I taxi sono vuoti. I conducenti raggruppati a fumare poco in là. Faccio un cenno, non rispondono. Mi avvicino, uno mi chiede la destinazione. Al mio Roma centro, scuote la testa. Gli altri mi danno le spalle e continuano a parlare, come se non ci fossi. Insisto, niente, non mi calcolano. Passa una coppia di americani attempati. Il tassista scatta come una molla, li carica e riparte. Gli altri colleghi scherzano, fumano davanti a me, piantata lì. Aspetto. Passa una famiglia francese, il secondo taxi li carica e sgomma via.
Sono stanca, sola e affamata. L’ultimo bagliore del giorno scompare. Ed è adesso che la mia incredulità lascia posto ai fumi densi che cominciano a uscirmi da naso e orecchie, l’educazione viene spazzata via e le parole che emetto in un grugnito contengono una certa dose di assertività. All’ennesimo rifiuto di portarmi a casa, condito da nun se po’ fa, gli occhi mi si fanno fessure e mi trasformo in castigastronzi. Pronuncio una parola e mi giro diretta verso il posto dei carabinieri. A quel punto, un tassista mi ferma, prende il cellulare e parla con qualcuno. Ariva, dice tornando al suo ozio. Appare un taxi scassatissimo, bozzato e senza aria condizionata. Finalmente salgo. Chiedo perché, perché non fanno il loro mestiere, ma il bello e cattivo tempo. Lui è un ragazzo giovane in una macchina decrepita ma guida bene. È gentile, premuroso, appartiene a una cooperativa democratica di pochi autisti. Risponde: io accetto tutte le corse, loro, loro sono la mafia.