Qualcosa non torna. “Café Society”, ultima opera di Woody Allen, uno degli ultimi miti sopravvissuti della mia generazione, non può dirsi un brutto film.
No, assolutamente.
Riempiono l’occhio di sincera gioia la cura scenografica del particolare, la luce abbagliante (opera del nostro maestro Vittorio Storaro) che avvolge l’amata-odiata Los Angeles, d’accordo. Consolano l’animo il graffio di qualche battuta degna dei vecchi tempi e la leggiadria di un tocco inimitabile e resistente all’incalzare del tempo cinico e baro.
E allora perchè “Café Society” non convince nemmeno un po’?
Proviamo a capirlo.
Per prima cosa, per fare un bel film serve una trama. E tale non si può definire l’estenuante storia d’amore-non amore tra il (solito) ragazzino ebreo newyorchese e la solita, volubile ragazzina tutta volto angelico e cuore ingrato. I fratelli Vanzina, per dire, consci del proprio incommensurabilmente inferiore tasso di classe, costruiscono i vari “Sapore di mare” su una molteplicità di situazioni che, al tirare delle somme, lasciano mediamente più soddisfatto il pubblico pagante.
Forse Woody, ottimo nella descrizione “ambientale” dei rapporti a due ma mai davvero sublime nell’approfondimento dei sentimenti, si è fidato troppo del proprio carisma. Fatto sta che “Café Society”, impostato quasi esclusivamente sugli sviluppi di un love affair senza grandi spunti d’interesse, non sorprende nemmeno per un minuto di proiezione.
Non è facile, ormai lo abbiamo capito, fare i film di Woody Allen senza Woody Allen. A illuminarli da attore, con la propria presenza magnetica, intendo.
Per riuscirci, meglio cambiare tema. Affidarsi a tematiche più profonde, anche dolenti come “Blue Jasmine” o a sceneggiature di spessore, come “Match Point”.
Che sia, a una certa età, meglio lasciar perdere la sophisticated comedy e occuparsi di cose più serie?
Insoddisfazione Ripetitività Woody Allen