Mi sveglio troppo presto la mattina. Per inveterata abitudine accendo la radio, e sospiro richiudendo gli occhi, cercando pace. Ma la voce lontana parla di massacri di civili in Ucraina, dell’invasore che prosegue, bombarda, assedia. La voce esprime previsioni di catastrofi economiche in Europa e, infine, annuncia che Covid torna, impassibile e feroce, a crescere.
Ascolto, impotente, inutile.
Non posso rifugiarmi presso figli e nipoti, che mi vogliono bene, non posso abbracciare le persone che mi sono care, cui sono cara.
Brucio di solitudine. Vorrei vivere ancora, solo per avere il tempo di essere ancora per un po’ madre, nonna, amica, viva. Vorrei poter condividere almeno una volta, avvolta dal calore di chi sente come me, il dolore e la paura, la rabbia, lo strazio. Le lacrime per vittime innocenti. La speranza e la gioia. Mi basterebbe qualche giorno di affetto, di amore. Di tenerezza.
Nel dormiveglia riaffiora la casa della mia vita. Dove i muri certo ricordano le corse dei tre bambini lungo il corridoio ricurvo, le risate, i pianti. I gatti disordinati sui divani. Il grande amore che lì nacque. La cucina ricorda il profumo di lontani spezzatini, di irripetibili risotti ai funghi. Il pavimento di legno, il bel parquet antico e lucente risuona, nostalgico, dei nostri balli. Le finestre incorniciate dalle fronde dell’immenso albero scrutano dentro le stanze, cercandoci invano. Lì non tornerò mai più.
Casa della vita Dormiveglia Solitudine