New York – Nella stagione 2016, Colin Kaepernick, il quarterback dei San Francisco 49ers, arrivò in campo con i suoi compagni e fece qualcosa di inatteso: durante l’inno nazionale, non rimase in piedi, ma si inginocchiò per protestare contro gli episodi di razzismo che quotidianamente vengono commessi contro americani non bianchi e contro la violenza della polizia. Nel corso delle settimane, molti altri giocatori si unirono a Kaep e molti si schierarono al fianco del ventinovenne del Wisconsin che, tuttavia, a fine stagione, non fu reclutato da nessun team.
Vale la pena ricordare che la NFL è solitamente identificata con i conservatori e molti proprietari di team hanno personalmente contribuito, con laute donazioni, all’insediamento di Donald Trump. Il quale, però, alla disperata ricerca di qualcosa che potesse distrarlo (non distrarre noi, ma se stesso) da un discorso disastroso all’ONU, dalle indagini di Mueller sulla Russia sempre più pericolose e da sondaggi che lo vedono al 37% di gradimento, ha deciso, durante un comizio elettorale in Alabama (l’unica cosa che sembra dargli ancora una qualche allegria), di attaccare i giocatori del football chiamandoli “figli di puttana” e chiedendo ai proprietari delle varie squadre di licenziarli se non “rispettano” l’inno nazionale.
Per rincarare la dose del suo arrogante e cieco anti americanismo, la mattina successiva, ha “sfidato a duello” un’altra stella dello sport, Steph Curry, che aveva fatto sapere di non essere intenzionato ad andare alla Casa Bianca come è tradizione per la squadra vincitrice del campionato di basket. Ora, Trump, ha annunciato al mondo, via twitter, di aver ritirato l’invito che Curry (badate bene) aveva già rifiutato. Proprio come fanno i bambini. “Volevo un gatto nero nero nero, mi hai dato un gatto bianco e io non gioco più”.
Ciò che non ha considerato Trump è che gli atleti e le atlete insultati sono americani e quindi godono di un diritto inalienabile garantito dal Primo Emendamento che protegge la loro libertà di espressione.
Trump, ancora, ha dimenticato che la schiavitù è stata abolita e che, quindi, gli afro americani – i due terzi dei giocatori professionisti della NFL – hanno gli stessi diritti di tutti gli altri americani, incluso quello di protestare senza essere licenziati.
Trump, inoltre, ha sottovalutato il fatto che, i suoi commenti a sostegno dei neo nazisti, ricorrenti nelle ultime settimane, non sono cosa facile da mettere da parte e non è accettabile, per la maggioranza del paese, un presidente che definisce “persone perbene” i dimostranti che a Charlottesville hanno seminato violenza e causato la morte di Heather Heyer e “figli di puttana” dei campioni dello sport che onorano la bandiera a stelle e strisce in tutto il mondo.
Trump, poi, ha dimenticato il potere straordinario dello sport che, da Jackie Robinson a oggi, ha aiutato il paese a colmare divari, appianare divisioni, creare unità, svelare il razzismo per quello che è: una porcheria che infanga il cuore del paese e che ne ha sempre costituito solo ed esclusivamente le ombre e mai le luci.
Cosí, Trump, in una domenica per lui da incubo, ma per noi bella da vivere qui, in America, ha assistito alla sua più grande sconfitta mediatica con il mondo dello sport: dalla NFL, passando per il basket e fino al baseball, unito, con braccia incatenate, come sul ponte di Selma, a fare da muro, senza mattoni, contro chi questo paese sta provando, da dieci mesi, a distruggerlo senza pietà.