Tutta colpa di Alfredo

Aforza di spedire curricula e spiritosissime lettere di presentazione, mi sono venuti i capelli bianchi. Quotidiani, riviste, magazine, inserti domenicali, sabatini e venusiani, volantini pro-consumatori, aziendali, sindacali… le ho provate tutte. Vorrei guadagnare uno stipendio scrivendo, e no, non credo a Babbo Natale. Be’, d’accordo, forse dovrei immergermi in un illuminante, salvifico bagno di modestia e chiedermi se, per caso, io non sia all’altezza delle mie velleità. Magari non sono così abile, con lettere e virgole, come voglio credere. Me li farei anche venire, i dubbi, lo giuro. Ma temo di essere un’incorreggibile superba, un pallone gonfiato in gonnella, una pescatrice di metafore che allarga sempre le braccia oltre il limite della decenza. E poi, accidenti, perché mai dovrei negarlo? Io-Scrivo-Da-Dio! Mi offrono collaborazioni a pioggia; non retribuite, ovviamente, ché “ti lasciamo firmare gli articoli, bella, mica cavoli!”. Agli amici si piegano le ginocchia dalle risa, quando me ne esco con una delle mie: “la Ale? Un fenomeno! Scrive-Da-Dio!” (visto? Lo sanno tutti!) e io lì, a nicchiare, ma senza mai appendermi alla stampella del “no-no, stai esagerando”, perché hanno ragione loro e perché, al mondo, non c’è categoria umana che io detesti più dei falsi modesti, inclusi quelli che non sfornano rime baciate a loro insaputa.
Ma che devo fare, cercare la solita, viscida raccomandazione? Infilare l’ovatta nel reggiseno, ipnotizzare un capo-redattore a caso e ammiccare come un’olgettina qualunque? Travestirmi da Hugh Grant e pregare il direttore di Cavalli & Segugi di darmi un’occasione?
È inutile, non c’è verso. Il mondo dell’editoria mi rema contro; e pure Alfredo, a dirla tutta. Non lo conoscete? È l’oste malefico, e come guarda in tralice lui, nessuno mai. Da almeno un quarto d’ora sta strofinando nervosamente, sul grembiule lercio, prima il palmo, poi il dorso delle grosse mani.
Mi odia. Odia me e gli altri imbecilli che trascorrono le giornate qui – chi con penna e quaderno, chi con IMac, IPad, IQualcosa – fino all’ora del vespro. Si pente ogni santa sera di averla chiamata così, la sua bettola. Non avrebbe mai immaginato, all’epoca, che ci saremmo dati appuntamento tutti qui, noi falliti. Né che sarebbe stato costretto a ripetere, quotidianamente, lo stesso sciancato mantra: “Fuori dalle balle, lavativi! Non ce l’avete, una casa? E trovarvi un lavoro, no?! Sono le sette e sono stanco come un cammello e ho la schiena rotta e sono in piedi dall’alba, io! e mia moglie mi aspetta!”
Maledetto idiota! Esco. Sbatto la porta talmente forte che l’insegna pendula, un vecchio triangolo di latta aggrappato a due catene, stride e mugola. Alfredo, scuotendo vigorosamente il capo, maledice la mia famiglia per intere generazioni; poi accompagna la pancia fino all’uscio, si stropiccia la faccia, abbassa mezza serranda e appone il debito cartello sulla maniglia all’ingresso: OSTERIA ‘DA DIO’ – SIAMO CHIUSI.

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