Al Maschio Angioino di Napoli fino al 1 settembre sono esposte 56 fotografie di Mimmo Jodice, di cui cinque inedite. Le opere sono raggruppate per nuclei tematici dell’immaginario metafisico, e dinanzi a ognuna di esse è sistemato un dipinto di Giorgio de Chirico. Ciascuna delle opere del pittore siciliano pare legata ai lavori di Jodice a formare un reticolo di fili immaginari su cui le fotografie ruotano come elettroni.
Mimmo Jodice nasce 91 anni fa alla Sanità. Nel 1963 possiede, quasi per caso, un ingranditore fotografico. Già appassionato di arte, decide da quel momento di dedicarsi completamente alla fotografia. Si immerge nelle avanguardie che attraversano Napoli negli anni Sessanta e Settanta: la città vive un momento di sperimentazione artistica entusiasta e forsennata, che si è inevitabilmente commista alle grandi tensioni politiche e sociali di quei decenni.
Jodice è cresciuto alla Sanità, che è un luogo brulicante di umanità ultima. Non rimane a lungo estraneo alla contestazione, e porta la macchina fotografica nelle fabbriche, nelle carceri, nei vicoli, negli ospedali e nei manicomi della sua città. L’incontro con Roberto De Simone lo conduce a lavorare su temi antropologici, come testimoniato dalle fotografie scattate dal 1972 al 1974 durante alcune feste popolari campane, che confluiscono in un libro a quattro mani della cui prefazione è autore Carlo Levi.
Jodice vuole con tutte le sue forze che le sue fotografie siano arte. È supportato dallo sguardo del bambino. Per lui lo stupore è condizione abituale. La realtà non gli appare necessariamente e cartesianamente come è, perché l’artista bambino inventa, distorce, allarga, restringe ed elimina per adattare il mondo agli ingranaggi delle sue visioni.
L’umanità, che è il centro della prima fase della sua ricerca creativa, si viene gradatamente offuscando. Gli uomini diventano sempre più piccoli e sempre meno importanti, fino a scomparire. Questo approdo della poetica di Jodice è forse spia di una disillusione, cronaca di una sconfitta, di una speranza frantumata. Dietro le maschere del mondo non c’è niente: vuoto, assenza, delusione.
Le immagini si fanno più statiche, apparentemente congelate. Le statue, gli archi, i capannoni, le spiagge pare siano privati completamente di suono. Ma se i soggetti sono in prima istanza fissi, l’artista interviene mettendo in atto la sua visione. Ecco l’elemento pivotale: la visione che precede la creazione. La macchina fotografica oscilla, sussulta, sguscia tra le mani dell’artista per generare dinamismo, contrasto, evanescenza, scivolamento. L’immobilità e la solitudine dei soggetti si fanno dubbie, meno assolute, ipnotiche.
L’intento è dunque la creazione di soggetti originali e irreali, atti a contenere la metafora primigenia della realtà, cioè la verità. E se per arrivare al vero bisogna chiudersi in camera oscura e tagliare, strappare, sovrapporre, che si proceda. E si proceda in bianco e nero, perché Jodice, nato a Napoli, non è uscito mai dalla drammaticità barocca dell’incidente tra luce e ombra.
Che sia umanità palpitante e carnosa, che sia un pezzo di mondo rubato al buio, un orizzonte piegato alla curva con le dita, una biciclettina, una sedia, una pompa di benzina, non vale la pena cercare le tracce del tempo, perché Jodice il tempo ha deciso di sospenderlo.
La sua ricerca sorridente e cocciuta della sospensione del tempo lo ha portato a rimpicciolire e emendare l’umanità dalla sua visione. È un’assenza/presenza, una promessa come quelle che fanno i bambini, senza alcuna possibilità o voglia di mettere radici nel reale, eppure – senza dubbio e senza appello – una promessa vera.