Appena salito sul tram della linea 23 chiesi se fosse quello giusto per la mia destinazione. Mi risposero insieme due donne non giovanissime con borse della spesa ai piedi, e un uomo, tutti seduti vicino alla porta: sì, era quello giusto. Vicino all’uomo c’era un posto e mi sedetti.
Cominciò lui, quando passammo dal Monumentale: «Loro sì che stanno bene!». Lo disse senza una cadenza marcata. Aveva una barba trascurata sale e pepe che faceva da cornice al pizzo. Mi colpì che sotto un abbondante giaccone fosse vestito a strati, come solo un barbone sa fare: due maglioni, un gilet, una camicia di flanella e, sotto, una maglietta scura.
«Quando passo da qua e vedo il cimitero, penso a Napoli: noi li curiamo i morti».
«Voi siete di Napoli?» chiesi io, dando volutamente peso al “voi” per rispetto a una persona che camuffava bene di essere disperato. Forse non lo era stato sempre. Mi sembrò che si accorgesse dei miei pensieri e allora cercò di minimizzare il suo stato.
«Sì», disse «e a Napoli vivevo nel quartiere più napoletano che esista, Rione Sanità. Ma non in un posto qualsiasi, io vivevo a pochi passi da via Santa Maria Antesaecula dove stava di casa il Principe De Curtis, Totò. In questo posto batte il vero il cuore di Napoli; la casa ormai è, come diciamo noi, sgarrupata, ma ai nostri occhi luccica come la Reggia di Capodimonte. Vedete, quando uno porta nell’anima il sentimento di quel quartiere, può star lontano da Napoli, tirarsi dietro in una borsa tutto quello che possiede e sentirsi ricco».
Con gli occhi mi indicò un gran sacco colorato sotto il sedile di fronte. «Questa filosofia», aggiunse «ce la portiamo appresso e ci aiuta a tirare avanti a campare». Da una tasca tirò fuori un portafogli un po’ unto, me lo mostrò aprendolo e vidi che c’era una carta d’identità usurata e un foglietto piegato in quattro; lo prese e lesse ad alta voce: «Chiunque tu sia, ti prego, portami a Napoli». È – concluse – la stessa frase che disse Totò a chi gli stava vicino, a Roma, prima di morire. «Chissà… magari qualcuno si commuove e fa lo stesso con me».
Ammiccando cominciò a strofinare un corno di corallo rosso che portava all’interno del gilet, cucito. Stavo assistendo alla rappresentazione di una sceneggiata napoletana in esclusiva per me. Poi mi raccontò, declamando come in una filastrocca «pizza e frittelle, mozzarella in carrozza, spaghetti con le vongole veraci, pomodori e peperoni ripieni, pennette aumm aumm», che era stato cuoco e faceva tutte queste specialità.
Ora si era ridotto a qualche lavoro saltuario di giorno, la notte la passava in un sottoscala. Si portava dietro la coperta e anche una spiritiera e una “napoletana” per farsi il caffè, che ora scarseggiava. Disse di chiamarsi Ciro, aveva un disperato bisogno di chiedere, ma aveva il decoro di non volerlo fare o, forse, lo stava facendo, ma con molta arte. Si girò verso il finestrino e sembrò guardare fuori nel nulla con un’ espressione indefinita di attesa.
Io cercavo in tasca qualche spicciolo: niente, solo un pezzo da 20. Dovevo sbrigarmi, perché lo spettacolo era al culmine e io stavo arrivando alla mia fermata. «Ciro», dissi mostrandogli i 20 euro «ho solo questi, facciamo a metà». Non mi lasciava indifferente e volevo dirgli che a tutti può capitare un momento di crisi. «Datemene dieci di resto».
«Dotto’, voi mi fate veramente felice, ma io tengo, speriamo, 5 euro» e mi mostrò tante monetine. Ormai dovevo portare a termine la mia parte, mi presi quella manciata di spiccioli, gli detti la mano, un augurio e poi un ordine benevolo, col tu: «Uè, Ciro, non te li giocare al lotto!».
«No dotto’, te lo giuro su San Gennaro, mi compro tutto caffè».