Un cane Puro amore

Ciuf era il nome del mio cane. A dire il vero non era proprio mio, era nostro, per la precisione dei miei nonni, Irene e Mario, un po’ come Mario, detto Lollo, non era proprio un nonno, era un “nonnastro”. Perché era il secondo marito di nonna Irene, rimasta vedova del suo grande amore a vent’anni col mio babbo ancora bebè, che lei conobbe molti anni dopo e sposò poco prima dei quaranta per non sconvolgere il suo unico figlio diventato nel frattempo un inquieto adolescente. Mario, benché fosse più giovane di lei – di quanto non si sa, sfuma nella leggenda – per noi era un vero nonno, un supernonno, così come io e Irenella eravamo le sue dilette nipotine.
Quando il mio babbo tornò sfinito dal lager, la nostra famigliola fu accolta nel grande appartamento antico di via Ariosto, per sette anni. A un certo punto comparve la Mignina, una gattina nera che “l’Irene” – come esigeva di essere chiamata la nonna – salvò dalla strada e dalla rogna spalmandola di non so quale intruglio unto e nerastro e trasformò in uno spettacolo di bellezza. Una volta aggiuntosi il cucciolo di barboncino dal soffice pelo nero ricciuto tirabaci, la cerchia familiare convivente si completò, in un’armonia perfetta tra i grandi e i piccini, umani, felini e canini.
Anche quando traslocammo in una casa nuova tutta per noi, in corso Sempione, il legame con questi nonni restò strettissimo, e l’andirivieni tra le rispettive case, praticamente quotidiano finché vissero. E le lunghe vacanze tutti insieme, le passeggiate al parco del Castello, i gelati da Passerini, il caffè allo Zucca, sempre col Ciuf al seguito. Persino dopo la spesa al mercato di Quinto Alpini, a due passi da casa sua, caricati fiori, frutta e verdura e ovviamente il cane a bordo della sua Cinquecento nuova di zecca – come la patente presa a sessant’anni dopo un ictus – Irene proseguiva a sussulti fino a casa nostra, mentre noi stavamo ansiosi di vedetta come Sioux sul balcone. Appena si apriva la porta, il Ciuf ansante si precipitava nella stanza di noi fanciulle e si metteva in adorazione degli animaletti dello Steiff schierati su un ripiano in alto della libreria, agitando frenetico il codino e soffocando i latrati festosi, da cane beneducato qual era.
Quanto era simpatico, divertente, intelligente, affettuoso e sensibile – empatico, secondo l’aggettivazione oggi fin troppo in voga! Se eri triste, lui ti fissava negli occhi coi suoi occhi tondi marroni, stortando un po’ di lato la testolina, a volte mugolava, sembrava quasi che piangesse. Diceva l’Irene: gli manca solo la parola. Scommetto che lui non avvertiva né questa né altre mancanze. Era un cuor contento, entusiasta di rendersi utile con una serie di piccoli servizi per i nonni, ormai traslocati in un appartamento moderno al primo piano in via Albani. Gli aprivano la porta e lui correva giù scodinzolando, il portone era sempre aperto, come i conti dal giornalaio e dal tabaccaio – che tempi! – e tornava col Corriere o con un pacchetto di Stop in bocca, entrambi con l’impronta dei suoi dentini. Gli episodi buffi che lo vedono protagonista non si contano (ne rievoco alcuni in un pezzo di autobiografia che forse condividerò), e qui va in dissolvenza il superotto a colori dei miei ricordi felici.
Il filmino, tra fotogrammi rotti in bianco e nero e fermi immagine, riprende dagli ultimi tempi desolati in cui scomparvero tutti a un ritmo devastante, in dodici mesi o giù di lì. Pochi giorni prima di compiere settantun anni, dopo mesi di sofferenze e di morfina, il cuore malato di Irene cedette, incrinando il vecchio cuoricino del Ciuf, inconsolabile nonostante le instancabili coccole del Lollo, che se lo teneva sempre stretto al petto sulla loro poltrona preferita. Stavano abbracciati, incollati, aggrappati l’uno all’altro come in una cordata per non precipitare nell’abisso del dolore. Ho un ricordo straziante del Lollo con la testolina del Ciuf posata sulla sua spalla e dello sguardo perso nel vuoto di entrambi nella casa vuota.
Quando morì il cane adorato, il nonno lo seppellì in un cimitero dedicato per animali a Valeggio sul Mincio, e poco tempo dopo, proprio in quello stesso posto, di ritorno da un pranzo di Natale dai parenti mantovani, sentì arrivare il malore, accostò, fermò la macchina sulla corsia di emergenza, spense il motore. E anche il suo cuore affranto si fermò per sempre.

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