Il 7 ottobre 1973 era appena scoppiata, tra arabi e israeliani, la guerra del Kippur. Massimo, Giorgio, Beppe e Franco ne avevano una percezione abbastanza vaga, concentrati com’ erano sulle vicende di un liceo in dirittura d’arrivo e, soprattutto, sulla passione che, bisogna ammetterlo per onestà intellettuale, occupava i loro pensieri più della politica e perfino delle ragazze: il calcio. Giocato, guardato e parlato senza che la noia prendesse mai il sopravvento.
Quel 7 ottobre era proprio una bella domenica, e i quattro diciottenni, affamati del mondo come una nave appena varata e maternamente protetti dalla 600 azzurrina, vagavano leggeri senza una meta precisa per le strade sconosciute di una periferia romana al limite della campagna. Finché furono costretti a rallentare da un evento improvviso e violento: il cielo si era fatto imprevedibilmente rosa, indaco e violetto, esplodendo all’ orizzonte in strati sovrapposti di rosso porpora e oro.
Il pensiero dei quattro, per i limiti imposti dalla gioventù e forse anche dal pudore dei propri sentimenti, trovò un accordo spontaneo: quel cielo che si stendeva sulle case basse e squallide tra Boccea e Primavalle per prolungarsi nella pianura incolta digradante verso il mare di Maccarese e Fregene, invisibile ma in qualche modo percepito e dunque incluso in extremis nel dipinto, stava celebrando l’ evento di poche ore prima, quando la Roma aveva faticosamente piegato il Bologna per due a uno, in un match non memorabile. Gol di Prati e dell’ esordiente Di Bartolomei.
Dopo cinquant’anni quei ragazzi non sono più quattro ma tre, piuttosto stanchi e disillusi. Hanno fatto un sacco di cose, si sono interessati di politica, di ragazze e di molto altro, ognuno a modo suo. Guardano al futuro come una strada sempre più stretta, mentre la guerra, quella guerra, è ancora lì.
Come una nuvola incombente sul cielo basso, senza colori.
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