L’altra notte, in tv, sono incocciata per caso in un film strano, polacco, coi sottotitoli in italiano. Un paese di campagna, gente vestita anni ‘50. Era già cominciato. Mi ritrovavo, esausta, dopo ore spese su FB e Twitter, sempre al servizio della Rivista Intelligente. Infine, mi ero abbandonata a un pigro zapping quasi disperato. E quelle immagini lente mi hanno fermata. Mi sono domandata come mai, io che non amo il cinema, non riuscissi a staccarmene. Un fiume, un giardino, un ballo su una terrazza di legno, un dialogo appena accennato, affondavano silenziosi e implacabili nel più profondo di me.
Perché? Era il linguaggio usato dal regista. Non so descriverlo con compiutezza e precisione: io non sono, appunto, una cinefila. Ma era lo stesso linguaggio che cerco nello scrivere: necessario, sintetico, scandito. Che celi, nel pudore, il peso ineludibile del non detto – che sveli come, sotto diversi nomi, ciò che non diciamo lavori dentro ognuna delle nostre vite. Il linguaggio assoluto.
Poi ho scoperto che si trattava di “Tatarak” (Sweet Rush), di Andrzej Wajda. Del 2009.
Andrzej Wajda Linguaggio Zapping