Ama parlare con gli alberi e ascoltare i fruscii delle foglie che “ridono tra loro”. Piccola e schiva, la signora Toku è una vecchietta con le mani rese deformi dalla malattia, ma abili ancora a confezionare un’ottima marmellata di fagioli rossi: “An”. L’An serve a riempire le focaccine dolci che Sentaro, un giovane afflitto da mille problemi, vende nella sua baracca. La vecchia signora, spezzando poco a poco le resistenze di Santaro, comincia a lavorare con lui.
Col tempo scandito dai grandi ciliegi prima in fiore, poi verdi, poi gialli, poi rinsecchiti dal gelo che tendono i rami sulla bottega di Santaro, nasce, tra lui, Toku, e una ragazzina introversa che si trova spesso a passare di là, un’amicizia che va oltre le differenze sociali e di età. Oltre i pregiudizi e il mondo spesso ostile che circondano la vecchia signora, l’uomo tormentato e la liceale.
Il collante è l’An, la conserva di fagioli che Toku sceglie uno a uno, depurandoli dalle impurità e facendoli cuocere piano piano, “ascoltando”, come ascolta foglie e fiori, il bollore dei legumi nella grande pentola di rame. Come in altri film giapponesi, la preparazione del cibo è una forma d’arte.
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Le ricette della signora Toku“, presentato a Cannes, è un racconto un po’ esile e forse troppo lungo, le sequenze lentissime. Al punto che il modo in cui la regista, Naomi Kawase, decide di svelare finalmente il segreto della vecchia signora, suona quasi artificioso nella dinamica della storia.
Eppure la commozione scatta spontanea ogniqualvolta la cinepresa si sofferma sul volto incredibilmente liscio di Toku, sul suo sorriso che è un tutt’uno con l’incredibile bellezza del paesaggio giapponese dominato dal trionfo dei ciliegi in fiore.
Una manutenzione del sorriso nonostante lo strazio per ferite fisiche e psichiche non ancora guarite.
Kirin Kiki, straordinaria, è la signora Toku. Un film garbato, quasi zen, nell’arte di affrontare le difficoltà della vita.
Le ricette della signora Toku di Naomi Kawase (Giappone 2015)
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