Mi chiamavo Andrea, ero molto orgoglioso di essere gay e di essere bello. Avevo un buon rapporto con le donne: godevo della loro compagnia, mi piaceva abbracciarle, e persino baciarle, anche sulla bocca. E basta. Il resto lo riservavo agli uomini: tanti, troppi, tutti. Erano gli anni in cui Freddie Mercury proclamava “Faccio quello che voglio, con chi voglio”. Io ne seguivo l’esempio.
Nessuno poteva dirmi di no, ero irresistibile e solo. Veri amori non ne ho avuti, di amanti una schiera. Amici pochi, ma fedeli. Una grande amica, Mara, innamorata di me, che a mia volta adoravo. Quando qualcuno le sbatté in faccia che fra noi non ci sarebbe mai potuto essere l’amore che lei sognava addirittura svenne. «Ma cosa pensavi, di redimermi? Dài!». Lei pianse, e poi ridemmo assieme. Il nostro affetto durò finché restai in vita.
Arrivò il conto da pagare: la malattia, la bellezza che svaniva a vista d’occhio nello specchio, il vuoto attorno. Il mio declino è stato veloce e inesorabile; dalla rabbia sono presto passato alla rassegnazione, all’ironia. Negli ultimi giorni, con gli amici, abbiamo giocato al totomorte.
«Scommetto ventimila lire che muoio domenica»
«E io ne scommetto trenta che arrivi fino a martedì».
I giorni passavano e io non morivo.
Poi la fine. Mara è accanto al mio letto. Le mormoro: «Ehi, tesoro, mi sa che ci siamo».
«Chiamo gli altri»
«Non c’è tempo. Piuttosto, dimmi esattamente che ore sono»
«Le 23,59»
«Di martedì?»
«Sì»
«Allora cercherò di resistere ancora un minuto»
«Perché?»
«Perché di Venere e di Marte non ci si sposa né si parte»
Silenzio, poi sbottiamo in una risata.
«Sei sempre stato un grandissimo…».
Il resto non l’ho sentito.