Pubblichiamo i due migliori racconti del corso di scrittura di Valeria Viganò dell’ottobre 2023. Questo è il secondo
Il venditore ambulante perlustrava tutto il Medio Polesine, tracciando una sua propria
traiettoria che rimaneva racchiusa fra l’Adige e il Po. Ogni giovedì raggiungeva anche il
nostro paesino. Io lo attendevo, lieta, perché per me era ormai una consuetudine
scroccare un dolcetto alla nonna, al termine della spesa.
In quel particolare giovedì, nella calura del primo pomeriggio, la strada tremolante era
ancora deserta.
La finestra della nostra cucina era aperta, e sentivo mia nonna e la Gigia parlottare. Mi
appostai lì sotto, rannicchiata come un gatto, per origliare. Le voci delle due amiche mi
arrivavano sommesse, alternate a strani momenti di assoluto silenzio.
Nonostante tenessi le orecchie all’erta, non riuscivo a distinguere bene ciò di cui stavano
discutendo, così riuscivo a captare soltanto alcune parole del loro discorso, come ‘casa’,
‘soldi’ o ‘debiti’, ma non suscitavano certo il mio interesse. Stanca di spiarle inutilmente,
me ne andai tutta sola lungo la strada sterrata, ad aspettare il furgoncino nocciola.
Vagando per la campagna, mi fermavo a guardare nel fosso riarso le libellule e le farfalle,
oppure facevo un mazzolino di fiori di campo da donare a mia madre. I miei genitori erano
entrambi operai, risucchiati in una delle aziende metalmeccaniche che si stavano
ingrandendo nella nostra zona, dalla fine degli anni ‘70. Questo era il motivo per cui erano
via tutto il giorno. Io dovevo restare a casa con la nonna, per risparmiare la retta dell’asilo.
Di lì a poco udii da lontano il rombo familiare del motore a gasolio. Non appena la
sagoma del furgone sbucò fuori dalla curva, saettai in casa a chiamare le due donne.
– La Risàra, è arrivata la Risàra! -.
Mi riaffacciai alla porta, mentre il camioncino si fermava nel cortile spazioso.
Quando mi raggiunsero sulla soglia, ci incamminammo tutte insieme.
La nonna ci precedette, con il suo passo marziale e lo sguardo spento. Dentro di me, la
chiamavo il Generale. Aveva superato le due Guerre, e continuava a vivere come se ne
stesse affrontando una terza.
Io e la Gigia la seguimmo a breve distanza. Il venditore aveva già iniziato a spalancare le
portiere per esporre la merce. Il riso al chilo e le poche altre cose fresche, vendute
all’inizio dell’attività, non c’erano più. Ora, al loro posto, i pacchetti di plastica dei generi
alimentari, e i flaconi colorati dei detersivi si affastellavano ammiccanti nei cestini di
metallo. Erano i prodotti della nuova industria, che, come protagonisti, seducevano nelle
pubblicità in televisione.
Le due donne cominciarono a fare la spesa. Dalle loro bocche fluì l’Avemaria, lento e
monocorde, della lista di ciò che dovevano comprare. L’unico sintomo dell’angustia di mia
nonna era il movimento a scatti della sua testa. Aveva sempre il timore di spendere troppi
soldi, avendo maturato, negli anni, una spiccata tendenza al risparmio.
D’improvviso la litania finì. Mia nonna aspettò impassibile la sentenza. L’uomo si sfilò la
penna biro da dietro l’orecchio e ‘tirò il segno’, cioè fece il conto. Prima di proclamare il
totale, si fermò con la penna a mezz’aria e le chiese, guardandola in tralice:
– E per la bambina? Non prende niente? -.
Era il momento che attendevo. La guardai speranzosa. Il suo sguardo si ammorbidì,
mentre si voltava nella mia direzione.
– No, grazie. -, rispose, però, compunta.
Lui mi guardò con sospetto.
– Non hai fatto la brava, oggi? -.
Rimasi interdetta e abbassai la testa, sconsolata. Ci ero rimasta parecchio male. Di solito
la nonna me lo prendeva, il cioccolatino.
Lei, da parte sua, non diede spiegazioni, e il mercante non insistette. La Gigia si voltò a
guardare lontano, verso la linea ondulata dei Colli Euganei, sfocati e azzurrini nella densa
cappa d’afa.
Mentre l’uomo si preparava a ripartire, ci incamminammo in silenzio verso casa con le
borse piene. La Gigia appese subito le sue al manubrio della bicicletta. Poi ci salutò e se
ne andò via, pedalando lemme lemme, come quando era arrivata.
Rimaste sole, entrammo in cucina. Guardai la nonna riporre la spesa nella credenza. Un
pianto sgradito stava colmando i miei occhi e rendeva la sua figura sfocata. Ad un certo
punto non seppi più trattenerlo, e, con le lacrime che cominciavano a scendere, sbottai:
– Nonna, perché non mi hai preso niente? -.
Lei temporeggiò, pensai non mi volesse spiegare. I grandi lo fanno, a volte, quando non
vogliono dare risposte.
Poi, lentamente, si voltò. Nei suoi occhi, nonostante il riflesso dei suoi occhiali, scorsi la
scintilla di tenerezza che purtroppo appariva di rado.
– Per avere delle belle cose tutti, in famiglia, devono fare dei sacrifici. Anche tu. -, mi
rispose, sibillina.
– Quali belle cose, nonna? -, chiesi confusa.
Mi sorrise con aria malinconica, incurvando appena le labbra sottili, ma non aggiunse
nient’altro. Continuò le sue faccende e mi ignorò per il resto del pomeriggio.
Ritornai remissiva ai miei giochi solitari, e rimasi fuori finché, verso sera, mia madre non
ritornò dal lavoro.
Era in ritardo, il sole era già sceso dietro il salice.
Le corsi incontro, il suo abbraccio sapeva di ferro e sudore. Notai che in mano teneva
una borsa di plastica nuova. La mia curiosità bambinesca si risvegliò subito.
– Mamma, cosa c’è lì dentro? -.
– Fammi entrare in casa e poi ti faccio vedere. – mi rispose elusiva.
La seguii in casa, trottando, veloce come un topolino per seguire il suo passo. Quando
entrò, nascose la borsa di plastica su di uno scaffale alto. Poi mi guardò sorridendo.
– Dopo -, mi disse, – prima devi fare il bagno, altrimenti sporchiamo tutto! – .
Oh, no! Cercai di scappare fuori, lesta com’ero entrata. Ma lei mi afferrò prontamente per
un braccio e mi portò di peso in vasca.
Che giornataccia! Prima niente cioccolatino, poi il bagno! Le ingiustizie quel giovedì
sembravano senza fine.
Dopo avermi lavato, finalmente, mia madre mi rivestì, e prese dallo scaffale la borsa
misteriosa. Il mio malumore si dissolse all’istante, e la curiosità prese il suo posto.
La prima cosa che estrasse fu un pezzo di stoffa bianco, sembrava una camicia. Me la
fece indossare sopra i miei abiti, ma i bottoni finirono sulla schiena.
– Mamma, è rovescia! -.
– No, no, è dritta! Va indossata proprio così! -, disse, ridendo del mio disappunto.
Poi fu la volta di un bel nastro rosa. Facendolo passare prima sotto il colletto, mi fece un
fiocco sul davanti. L’ultimo oggetto che sbucò fuori fu un piccolo cestino colorato, di
plastica e con il coperchio.
– Che bello! È mio? -. In un attimo pregustai l’utilizzo che ne avrei fatto. Sarebbe stato
uno scrigno perfetto per il mio tesoro di sassolini colorati.
– Sì, a settembre lo userai all’asilo, tutti i giorni. Ci metteremo la tua merenda! -.
La guardai sgomenta: cos’era adesso questa storia dell’asilo?
– Ma il papà dice sempre che devo restare a casa con la nonna, perché l’asilo costa
troppi soldi…-, dissi esitante.
– Sì, lo so. Però adesso che anch’io lavoro in fabbrica ce lo possiamo permettere,
così ci potrai finalmente andare anche tu, come gli altri bambini! La nonna ci ha detto ieri
che ci aiuterà a pagare la retta.-.
Compresi, in quel preciso momento, che i soldi per il mio cioccolatino erano serviti a
coprirne una piccola quota. Era questo il sacrificio a cui si riferiva il Generale.
Lei cominciò a parlarmi, elettrizzata, di amici e di giochi, di cose nuove da imparare,
ignorando visibilmente il mio disagio. Ero un poco timorosa al pensiero dell’ignoto che mi
aspettava. Avevo il presentimento che fosse una trappola.
Ad un certo punto, troppo confusa per continuare ad ascoltarla, la lasciai sola con il suo
entusiasmo a riordinare il bagno e ritornai in cucina, dove mia nonna sedeva sul divano.
Io e il Generale ci guardammo, ognuna di noi due turbata a proprio modo. Il suo sguardo
era ritornato lontano e malinconico.
Mi coricai al suo fianco, appoggiandomi sulle sue gambe. Lei mi pose lieve una mano
sulla testa. Rimanemmo così, vicine, in silenzio, un’anziana che a settembre sarebbe
rimasta da sola, e una bambina che invece avrebbe incontrato il mondo.