Un Motom al Divino Amore

E’ opinione diffusa che i giorni delle vacanze tra Natale e Capodanno siano una specie di tortura cui – per giunta – ci sottoponiamo più o meno volontariamente.
E’ una visione chiaramente alterata, alimentata dall’ironia un po’ snob che ormai ci pervade come una nube tossica. Ci presentiamo ai cenoni e ai pranzoni indossando una specie di maschera antigas, una protezione preventiva in grado di isolarci da discorsi intimi o appena profondi, in grado di intaccare la sfera che abbiamo lasciato prudentemente ognuno a casa propria, campo di battaglia ufficialmente riconosciuto per le quotidiane guerre familiari.
Personalmente, ho sempre rigettato questa visione delle cose, ottenendo risultati alterni, è vero, ma che alla lunga si sono rivelati di segno positivo. Se c’è qualcosa da dire, lo si dica, perbacco. Ho conquistato negli anni, in famiglia, un ruolo da mina vagante cui non intendo rinunciare a nessun costo, sempre possibilmente nei limiti del buon gusto e senza ricorrere alle armi da taglio o da fuoco.
E allora succedono cose interessanti. Si ricostruiscono vite perdute nel tempo, episodi sconosciuti, storie del passato che riguardano le radici di tutti i commensali seduti intorno alla tavola imbandita, come ectoplasmi che trapelano timidamente dalle maschere antigas, pian piano allentate.
E’ come completare un album ideale di fotografie con tanti posti vuoti, ricomporre un mosaico che non ci sarà mai più modo di ricostruire.
Ve ne dico una: Uno dei miei fratelli, a diciotto anni, circolava per la Roma degli anni cinquanta in sella a un motorino rosso, vero mito dell’epoca, il Motom 48 cui furbescamente aveva fatto applicare la sella lunga, per scarrozzare amici e amiche. Mio padre invece, non solo non concepiva l’idea di salire su un mezzo a due ruote, ma non aveva nemmeno la patente di guida per la macchina. Era ingegnere e sapeva guidare i treni, uno spirito tormentato e ossessionato dal senso del dovere e da una grande religiosità.
Bene: in questo Natale ho saputo da mio fratello, opportunamente intervistato in modo incalzante, che una volta si caricò mio padre, rigido come uno stoccafisso, sul Motom rosso, fino al Santuario del Divino Amore. Dal quartiere Nomentano fin lassù, almeno venti chilometri all’andata e altrettanti al ritorno. Mai avrei pensato che un simile, incredibile evento si fosse svolto realmente, nei termini descritti durante il pranzo di Natale del 2018.
Una foto preziosa in più, nell’album della memoria che, se ci si pensa bene, è l’unico valore che possediamo davvero.

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