Un muso sulla gamba

Era febbraio, eppure era azzurro, come la mia Fiat 127 di seconda mano, nella quale ti nascondesti, piangendo come una disperata, per tutto il tragitto da Pozzuoli a via Andrea d’Isernia. Dovevi restare con me solo pochi giorni, uno stallo verso la tua futura famiglia.
Io non ti volevo. Non volevo amarti. Non volevo ricordarmi di avere un cuore in petto. Perché lui, l’amore della mia vita, il mio cuore lo aveva frantumato in mille pezzi. Volevo solo soffrire, sentirmi sola e tu con quegli occhi pieni di domande e di progetti gioiosi, avevi l’intenzione pericolosissima di distrarmi dalla mia miseria. Ti ignorai per tutta la sera e poi mi rinchiusi in camera da letto, indifferente al tuo pianto. Mi addormentai pensando che il giorno dopo ti avrei riportata da Monica.
La poca luce che riusciva ad entrare nell’appartamento al piano rialzato, che odiavo con tutta me stessa, rischiarò, al mattino, un mucchio indistinguibile di peli e di lana – il verde era della mia sciarpa preferita, che da allora ho sempre conservato. Ti guardai dormire beata, nonostante il rifiuto che ti avevo inflitto, protetta dalla stoffa calda piena del mio odore, e ti amai.
Un nuovo tipo di amore. Sentivo voglia di proteggerti, di crescerti, smettere di essere single e persino mettere su famiglia – che nemmeno con lui, l’Amore della mia vita, avevo voluto iniziare. Ti amai anche quando, rientrando a casa, trovai sparse le decorazioni natalizie per tutto l’appartamento e pure quando mi tenevi sveglia per paura dei temporali.
Quando nel volo Napoli–New York uno steward imbecille mi disse che eri morta, non volli credergli – e infatti ti ritrovai al JFK, abbandonata in mezzo alle valige, tu lanciasti un urlo che fece correre la polizia. Eri con me nelle notti di solitudine, paura, dolore, gioia. Tu senza stanchezza mi guardavi, mi controllavi, mi proteggevi, mi scrutavi. Ogni volta che mi sentivi singhiozzare, seduta sul divano della casa del Queens, ignara di come avrei garantito la sopravvivenza a entrambe, mi mettevi il muso sulla gamba e premevi forte, finché non cominciavo a accarezzarti e, facendolo, mi calmavo.
Ti ho amata al punto da trovare la forza di lasciarti andare, di liberarti dal dolore a costo di moltiplicare il mio. Quando ti hanno presa in braccio per portarti via, ho visto la tua testa reclinarsi di lato: solo allora ho smesso di guardarti. Dovevo acchiapparmi forte a qualcosa che somigliasse alla vita, e da dieci giorni mi mantengo stretta all’appiglio, anche se le mani fanno male.
Abito negli abbracci degli amici, nell’affetto di tanti, nei disegni lasciati davanti alla mia porta da Ella e Jude, insieme ai biscotti al cioccolato, nei girasoli, nelle mail e negli occhi lucidi di chi apprende la notizia – e nelle parole di uomini che ho amato e che tornano per il ricordo di te.
Ti incontrai, nella mia macchina azzurra in un giorno azzurro. Azzurra la borsa in cui ti hanno adagiata per portarti via. Un giorno l’uomo che pensavo di aver amato più di te mi disse “tu non sei l’amore della mia vita, tu sei l’amore”. Ecco, ora capisco quelle parole. Le sento. Tu, Dorothy, non eri l’amore della mia vita. Tu sei l’amore.

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