«Guarda, io non soffro di nevrosi, ma come si avvicina Natale non c’è anno che non mi pigli la sindrome da regalo.»
«Chissà perché uno si deve spremere a fare i regali proprio a Natale: tutto costa più caro, si comprano un sacco di schifezze di dubbia utilità e incerto valore…»
Tant’è: la radice religiosa e ancestrale del simbolico dono dei Magi, più la violenza consumistica, ben difficilmente fanno desistere i donatori dal sentirsi in obbligo e i destinatari dal lamentarsi. Anche perché son ben pochi i doni mirati e tarati sull’assoluta conoscenza di gusti e debolezze del destinatario. Sicché è molto più facile stilare un catalogo dei regali da evitare che compilarne uno di quelli da fare.
Analizziamo il primo percorso.
Il regalo di rappresentanza. Quello che un comune mortale può decidere di fare al medico che lo ha risanato, all’avvocato che lo ha amorosamente seguito e che una volta, prima della crisi, le aziende facevano ai clienti.
Il donatore punta generalmente sull’oggetto importante, sul chilo d’argento, sull’agenda rilegata in pelle umana, sul libro d’arte in edizione numerata e, purtroppo, raramente sulla cassetta di champagne. Così la chilata d’argento va a finire in case che già traboccano di argenteria inutilizzata; il pezzo d’antiquariato a chi vive in una casa arredata in stile giapponese (cioè semivuota o comunque minimal) o stile Memphis (cioè postmoderna); l’agenda va a ingrossare le fila di un esercito di sorelline e sorellone, regolarmente riciclate a familiari e amici. Novanta su cento, il libro d’arte riguarda un periodo, una scuola, un autore che non sono nelle corde del destinatario. Pena, alcune sentite maledizioni.
Il cosiddetto pensierino. Col consumismo si è maniacalmente diffusa la sindrome del pensierino, che potrebbe-dovrebbe essere un libro. Invece no, è qui che si scatena la fiera della sarchiaponata. I negozi traboccano di oggetti tanto inutili quanto costosi fatti di carta, legno, ceramica, stoffa. Porta-tutto che in realtà non porteranno mai niente; quadernetti, scatoline, rubrichine, albumini, pennucce, matitone, che si aggiungeranno alla schiera di vuoti a perdere che intasano i nostri cassetti, affollano le scrivanie e rendono ingestibili le borse. È mai possibile che il vituperato pensierino non possa essere un chilo di miele purissimo, una bottiglia di whisky specialissimo, quattro barattoli di senapi estrosissime, un chilo di caramelle allegrissime? Insomma, qualcosa che lasci come traccia di sé un buon sapore in bocca e il ricordo di qualcosa che abbia, appunto, il valore di un pensierino e non la presunzione dell’eternità?
Il cosiddetto regalo intimo. Si fa al compagno di vita, di scrivania, di scuola. Mai chiedere «Cosa vuoi per Natale?», nulla di più sbagliato. Se c’è un gesto che vale non uno, ma dieci regali, è la sorpresa.
Bando alle pantofole e al pullover e sotto con una voluttuosa coperta di cashmere, l’abbonamento al Tatler, l’abbonamento da un fiorista per avere tutte le settimane i fiori prediletti -solo calle, solo rose, solo peonie, ovviamente recapitati a casa-, una fornitura, anche questa annuale, del profumo prediletto, per esempio.
Il cosiddetto regalo a sé stessi. Ci sarà qualcuno che vuole premiarsi con un gioiello a lungo sognato, un mobiletto antico a lungo carezzato con occhio concupiscente, la follia di un costoso cappotto.
Tutto bene, se non ci fosse di meglio. Cosa? Realizzare il proposito di regalarsi una vita migliore. Dopo una certa età, chi ha avuto successo e magari denaro, che gli son costati fatiche fisiche e impegno morale, si regali un po’ di gioia di vivere. Non c’è niente di peggio che incupirsi e incarognirsi per tener saldi valori come successo e denaro, generalmente forieri di orrende solitudini, e quindi di orrendi Natali, per quanti siano i regali che si ricevono.