L’unanime giubilo dei cittadini del Belpaese (quorum ego, in primissima fila) suggerisce, al di là delle questioni politiche su cui, com’è noto, si può impunemente dissertare affermando tutto e il suo contrario, fa ronzare in testa un pensiero in qualche modo già presente, a livello subliminale: che l’Italia fosse, ma proprio statisticamente, un paese di vecchi, lo si sapeva. Che la tendenza italica fosse, in senso più che generale, orientata al conservatorismo e alla refrattarietà pronta, cieca ed assoluta nei confronti dell’innovazione, pure. Per paura del nuovo, in qualunque settore si manifesti, siamo colti da un sacro terrore, si tratti di genere femminile, di arti, di modo di vivere, e naturalmente di politica. Siamo talmente conservatori che pur di rimanere lì, granitici, attaccati come cozze al Festival di Sanremo e al campionato di calcio, rigorosamente in ordine di palinsesto televisivo, immaginiamo finte riforme, perfino finte rivoluzioni alla Masaniello, ritrovandoci poi con tonnellate di populismo da smaltire, e senza termovalorizzatore.
E’ la peculiarità di una natura, la nostra, in cui convivono allegramente tratti di segno opposto, quali il conservatorismo e l’anarchia.
Per chiudere con un accento di speranza, si può però esprimere un voto a valle del voto quirinalizio. Mi pare di cogliere un vago sommovimento nella tetragona, bloccatissima struttura del sistema partitico, l’accenno di un’onda per ora impercettibile, ma che, adeguatamente sostenuta da aliti di vento al tempo stesso prudente e risoluto, potrebbe finalmente ribaltare la maledizione del Gattopardo, aleggiante su di noi dall’inizio della Storia repubblicana: nulla cambi perché tutto cambi.
Iniziamo a soffiare, dai.
Festival di Sanremo Gattopardo Quirinale