C’era una volta una maniglia rotta.
Infilavo la chiave, la ruotavo, i pirulicchi scattavano sull’attenti con un click, ma la portiera non si apriva. Così mi ritrovavo a stringere a vuoto la maniglia. Non una qualsiasi, ma quella della portiera lato-conducente.
Per mesi sono entrato nella mia Atos blu aprendo la portiera posteriore.
Mi sporgevo sul sedile, allungavo il braccio, lo deviavo a sinistra con un impegnativo contorcimento dell’arto e spingevo verso l’esterno la portiera anteriore, facendola dondolare in modo da afferrarla a tempo dopo essere sgattaiolato fuori.
Qualche volta poteva accadere che la portiera si richiudesse con un tonfo perché l’auto era parcheggiata su un impercettibile declivio e dovevo ritentare l’impresa con maggiore virulenza. Oppure lasciavo il finestrino aperto in modo da poter calare il braccio direttamente e aprire con studiata noncuranza.
Entrare in auto era diventata un’operazione complessa e adire al cruscotto un percorso con ostacoli e fastidi che tuttavia, una volta superati, mi lasciavano persino l’impressione di essere stato bravo. Che soddisfazione!
Il gioco dei riflessi condizionati mi induceva spesso ad aprire anche altre auto con lo stesso metodo e la stessa accortezza, ripetendo un rituale inutile e suscitando nei presenti qualche perplessità sulla mia integrità psichica. Ne sorridevo e scrollavo le spalle.
Ripensavo alla mia Atos con la maniglia rotta, dicendomi che quel difetto, per quanto mi procurasse dei problemi, rendeva l’oggetto speciale, gli dava un’aura di umanità, giacché, a dispetto di quel che si pensa, sono le debolezze a renderci cari quelli che amiamo, anziché le virtù.
Poi un bel giorno e nel giro di mezz’ora la maniglia è stata sostituita. Ora entro in auto, metto in moto e voilà. L’auto è tornata a essere solo una macchina, una macchina che fa il suo dovere. L’idillio è finito. Che me ne faccio di un’auto come tutte le altre? La guido!