Sono andato in campagna, a mettere in ordine la casa e fare un po’ di spazio negli scaffali. Ho perso tutto il pomeriggio tra la polvere dei libri. Era sceso il buio e i grilli cantavano quando mi sono accorto di aver fatto tardi. Ho chiuso imposte e portone e sono tornato in città.
Di tutto lo scartabellare pomeridiano mi sono portato via un libro, un tascabile sul teatro d’avanguardia. L’ho preso con me dopo aver parcheggiato davanti a una pizzeria del porto. Mentre aspettavo la mia Napoli con birra, l’ho sfogliato. Le pagine erano ingiallite ai margini, odore di vecchio, di morto e sepolto. Nella memoria, quel libro era vivo, come il giorno in cui l’avevo comprato. Per me era solo l’altro ieri. Per la carta ingiallita pareva una vita. La mia. Fa proprio brutto sentirsi rinfacciare gli anni da un pezzo di carta.
Una processione di ricordi si è snodata su quel tavolo di pizzeria. Ho finito la Napoli senza accorgermi delle acciughe e dei capperi. I ricordi pesano, fanno massa, fanno tempo trascorso. Eppure che cosa sarei senza quei ricordi? Ci sono affezionato alla mia storia. L’ho pagata al prezzo più alto sul mercato.
Uscendo dalla pizzeria, ero dispiaciuto di aver ripreso in mano quel libro. Tanto non lo avrei riletto, non mi interesso più di teatro. Sono salito in macchina, al parcheggio sul molo. Ho guardato il mare illuminato dai miei abbaglianti, poi, appoggiato allo schienale del posto di guida, ho spento le luci in sala e ho tirato il sipario.
Lucca, prima teatrale. Mi ero ammazzato, su per i tornanti della Lucchesìa, per arrivare in tempo allo spettacolo. Nessuno mi aspettava. Volevo fare una sorpresa. Mi nascosi in sala tra le poltrone, dopo che avevano spento le luci. Quando si accesero i riflettori sul palco, mi lasciai scivolare giù nella poltrona, nascondendomi dietro le teste delle prime file. Il pianista e la cantante fecero la prima entrée. No, lei non c’era ancora. Poi qualcuno mi sfiorò la spalla e si mise a cantare proprio dietro di me. La sua voce…! Era risalita dal fondo della sala con altri due attori, a colpo sicuro su di me, e io che avevo rasentato i muri per nascondermi.
“Non venire per la prima. Ho paura,” mi aveva detto.
“Paura di che?”
“Mi vergogno. Se ci sei tu in sala, m’impappino”.
“Tanto non ce la faccio a venire. Lavoro fino a tardi anch’io”.
La sorpresa di essere stato scoperto cedette alla vista di lei nel nuovo costume mozzafiato. Guèpière rossa attillata. Grandi occhi neri, ammiccanti da sotto un ombrellino di merletti. Gambe fasciate da calze a rete nere. All’altezza della giarrettiera, zone d’ombra e di latte turbavano la vista. Allontanandosi, mi diede un’altra occhiata languida. Salì sul palco insieme agli altri attori e finirono il primo numero con una chorus line, ballando tutti in fila. Continuò a sorridere verso di me per tutto lo spettacolo. Del resto era nella parte, faceva la chantosa.
Avevo sempre disprezzato i frequentatori degli spettacoli a luci rosse, e ora capivo quel che si prova a illudersi che una bella donna sul palco abbia occhi e corpo solo per te. Io, però, ero convinto che la chantosa fosse mia, e non solo nella fantasia di un’ora.
Finito lo spettacolo, nel camerino, Maria mi gettò le braccia al collo e, pur levandosi sulla punta dei piedi, riuscì a sporcarmi di trucco la camicia.
“Sapevo che saresti venuto!” gridò con gli occhi trionfanti.
“Come?”
“Perché ti ho chiamato!” e lasciando cadere la testa all’indietro, mimò la trance con cui mi aveva evocato, gli occhi e i pugni chiusi nello sforzo di concentrazione. La tenni ancora un po’ per la vita, mentre continuava a immedesimarsi nel ruolo di piccola sirena incantatrice.
Già le altre dei camerini accanto si erano cambiate e ripulite. Maria era sempre l’ultima. Faceva fatica ad abbandonare il costume, era come una seconda pelle per lei. Quella sera con le calze a rete, poi, non la finiva più. Si faceva stringere un po’, poi si allontanava con lo sguardo perso nel vuoto.
“Ma che hai stasera? Vatti a cambiare, che prendi freddo, svestita così”.
“Oh, tu sei geloso, perché questo è un costume ardito”.
Sì, a esser franchi, non vedevo l’ora che si rivestisse. Mi imbarazzava tutto quello show di sensualità in presenza d’altri quando poi, una volta soli, mi ritrovavo in braccio una bambina spaurita e non una maliarda.
Nella hall dell’albergo ci aspettavano i curiosi e gli organizzatori della serata. Andammo a prenderci un drink. Io sarei salito subito al primo piano, stanza n. 15, ma sapevo che Maria non si ritirava senza prima aver avuto la sua dose di mondanità. Non essendo la sola donna della compagnia, doveva competere parecchio per avere l’attenzione degli altri e, a dispetto di sé, era timidissima. Io la lasciavo fare, e cercavo di intessere una parvenza di conversazione con i vicini di tavolino. Mi annoiavo profondamente. In questi capannelli di vanità, dove tutti restano per essere notati e ascoltati, niente di interessante veniva mai prodotto, mentre echeggiava, sopra il brusio indistinto, il pronome personale io.
C’era quella sera una giornalista tedesca, venuta da Firenze. Alta, bionda, un classico di bellezza nordica. Zigomi alti, occhi azzurro chiaro, tutto il contrario di Maria. Mi si era seduta accanto perché mi aveva riconosciuto e sembrava interessata alle mie attività teatrali. Mi guardava dritto negli occhi. Ecco una vera maliarda, pensavo. Tempo dieci secondi, sento la mano di Maria sulla spalla: “Andiamo?” La sua sete di mondano si è esaurita presto stasera. La seguo felice. Questa è una tecnica che non devo dimenticare, attaccar bottone con una alta e bionda.
Ho appena richiuso la porta del n. 15 che Maria si è già precipitata in bagno. Sento il rumore della vasca che si riempie d’acqua. Mio Dio, ora ci starà dentro un’ora, e ho dimenticato il libro in macchina. Riscendo le scale scocciato. L’auto è un po’ lontana dall’albergo, mi rassegno a fare due passi e l’aria fina della notte mi sbollisce i furori.
Non è neppure mezzanotte, ma Lucca dorme. Percorro le sue stradine strette e buie, con qualche squarcio lunare sul marmo bianco di una chiesa. Dentro il cruscotto a destra trovo il libro comprato in un negozio vicino a Ponte Vecchio. Vorrei aver comprato un giornalino a fumetti, piuttosto.
A un crocevia, mi accorgo di aver sbagliato strada. Mi sono perduto. Continuo verso una promessa di orizzonte aperto, in fondo alla strada. Sono sui baluardi alberati, sulle mura. Lontano si stende la piana del Serchio, l’erba e la guazza fumosa sotto la luna. Più lontano, le sagome nere e maestose delle Alpi Apuane.
Rientro in camera intirizzito e sento l’odore profuso di colonia. Maria è a letto. Finge di dormire. Ho capito subito che qualcosa non andava, quando si è messa a fare la sceneggiata in camerino. Stasera non se ne fa nulla. Quando si lava e si profuma, puoi star certo che si dorme.
Mi spoglio rassegnato e m’infilo a letto con il libro. È sempre meglio distrarsi che cercare di capirla. Quando ci ho provato, ho passato la notte in bianco, ho litigato, ho implorato, con l’unico risultato che lei si è girata dall’altra parte e ha cominciato a russare. Il segreto sta nel non sentirsi rifiutati. Non è una questione personale, è lei che è fatta così, che quando più la vuoi più lei si nega. Ecco cos’è, una rognosa piccola strega.
Mi metto a leggere le righe fitte sulla nascita del teatro gestuale e conto sull’argomento soporifero per cadere subito in un sonno profondo, quando sento una manina serpeggiare verso di me tra le lenzuola. Era da immaginarselo. Non è poi tanto imprevedibile, la ragazza. Continuo a leggere, come niente fosse. La manina esce da sotto le lenzuola e mi ruba in un sol colpo il libro dalle mani. Ok, siamo intesi. Poso gli occhiali sul comodino e allungo le braccia verso di lei. Come un’anguilla mi sfugge e mi volta le spalle, fingendo di dormire. Le sono addosso, stavolta non la mollo.
“Lasciami stare! Volevo solo farti un dispetto!”
“Ah, no. Stasera non mi scappi”. La mia voce è quasi una minaccia.
Maria mi guarda, col volto impaurito.
“Ma insomma, che hai? Non sono mica Barbablù!”
“Stasera no, ti prego”.
“Guarda che sei stata tu a darmi fastidio. Chi ti cercava?”
“Volevo solo un po’ d’attenzione”.
“Eccomi ”.
“No, adesso voglio dormire”.
“Adesso che hai svegliato il can che dorme…” ma non finisco la frase. Sento la rabbia che mi sale in gola. Se non mi fermo in tempo, finiremo con un’altra litigata. Stanotte voglio dormire.
“Scusami, Sergio, ma ci sono delle sere che non mi sento a posto. Mi sento sporca”. Sta parlando con le lenzuola alla bocca, la faccia sepolta nel guanciale.
“Ma ti sei fatta il bagno, no?” cerco di buttarla sul ridere.
“Sì, ma non serve. Puzzo lo stesso”.
Silenzio.
“Quando mi sento così, mi fa tutto schifo. Provo repulsione anche per te”.
Benissimo. Stavolta non le farò da padre Freud. Se vuol parlare, non sarò io a tirarle fuori le parole di bocca.
“Sergio, di’ qualcosa!”
“Sono scocciato da tutta questa storia e dai tuoi bagni. Ti fai il bagno anche tre volte al giorno. Se hai qualcosa che non va, non stare a prendertela con me, a dirmi che ti faccio schifo. Vai da un analista”.
Piange. Alle lacrime non resisto.
“Scusa, Maria, ma anch’io ho un po’ di amor proprio. Quando ti girano, mi tratti come uno straccio”.
Ha paura di essere sporca dentro, e poi si sceglie quelle parti spinte da recitare, con quei costumi scostumati… A chi la dà a bere… La tengo stretta, combattuto fra tenerezza e rabbia. Va a finire che faccio io la parte dello stronzo egoista e insensibile.
“Tu pensi solo a te stesso”. Eccola, puntuale.
Mi alzo e mi rivesto. Non voglio litigare. Giro un po’ per la stanza, incerto. Vado in bagno e mi chiudo dentro. Evito di guardarmi allo specchio. Guardo le mattonelle. Chiudo gli occhi. Non può continuare così. Stiamo senza vederci per mesi, e le poche occasioni che abbiamo insieme sono uno strazio. Con questo nuovo spettacolo musicale se ne starà fuori per una stagione intera. No, così non può andare avanti. Una volta che funziona, me la fa scontare per dieci. E mi fa anche passare per maniaco.
Torno in camera, deciso a dormirci sopra.
“Sergio …”
“Sì”.
“C’è una cosa che non ti ho mai detto”.
È proprio decisa a non farmi chiudere occhio.
“Mi ascolti?”
“Sì, ma sbrigati, ché ho sonno”.
“Quando avevo nove anni, un signore, un amico di famiglia, mi portò con sé in un albergo e mi ci tenne per tutto un giorno”.
Ascolto, incredulo. “E cosa ti ha fatto?”
“Non me lo ricordo!”
Stavolta singhiozza di brutto.
Torno a stringerla fra le braccia e le bacio i capelli. Vedo rosso. Un porco di vecchio ha rovinato la mia ragazza. Furia omicida. La mente mi va in corto circuito, non riesco a immaginare il fatto. Non oso spingermi oltre l’abisso, non voglio vedere. Non riesco a seguire Maria dentro la voragine in cui è caduta, e non so come tirarla fuori. Riesco solo a cullarla, ad asciugarle le lacrime coi baci.
Ci risvegliamo così, la mattina, abbracciati. Maria corre a spalancare la finestra, dimentica della rivelazione notturna. Fuori il cielo è azzurro sopra le tegole e i comignoli di Lucca. L’aria frizzante delle alture gonfia le tende e imporpora il suo viso. Il mio angelo. Che si sente una puttana. La prendo per mano e l’attiro a me. Mi guarda di traverso, fa resistenza, la fronte si corruga in una smorfia di dolore.
“Cristo, neanche una tenerezza ti si può fare?”
Sono stremato. Sono un uomo giovane, sono innamorato. Perché mi scambia per un vecchio lurido?
“Andiamo via da qui. Voglio prendere aria”.
La seguo come un cane per le strade della domenica. Campane a festa sopra di noi, gente vestita a festa. Sul piazzale davanti al Duomo di San Martino mi fermo ad ammirare i ricami del marmo sulla facciata. Maria fugge avanti, verso l’entrata. Le navate laterali la inghiottono nella penombra di pulviscolo rosso-dorato. Vedo finalmente il suo viso intento ad accendere una candela. Mi avvicino, senza staccarle gli occhi di dosso. L’alone della fiamma la scolpisce di luci e ombre, come una statua di vergine martire.
“Questa è per San Giuda Taddeo,” dice sottovoce. Resta un attimo con lo sguardo perso sulle arcate e i capitelli, poi si avvia in silenzio verso l’uscita.
Traversiamo la piazza in un tripudio di sole e di piccioni. Corre qua e là, e fa decollare tutti insieme i piccioni della piazza, con gran svolazzar di piume. Ora è felice. Mi guarda e ride.
Non oso rompere l’incanto, ma ho paura di dimenticare un nome e le faccio la domanda indiscreta. “Chi è San Giuda Taddeo?”
Risponde senza guardarmi, mentre tira granturco ai piccioni.
“È il santo dei casi disperati.”
Racconto bellissimo e molto ben scritto. Lucca per me contiene un meraviglioso ricordo che era andato un po’ nel dimenticatoio. Grazie
nel cuore e nei pensieri di un uomo, bello!
Che racconto intenso! In poche pagine il vissuto dei due protagonisti è carico di emozioni. Le esperienze drammatiche non elaborate inevitabilmente logorano la loro relazione. Il finale è sospeso…bravaaa
👍❤🌹
Bello ,intrigante. Personaggi ben delineati