Una ricetta da sogno

Sogno di aver ricevuto da mio marito una Sacher a forma di cuore. Io nuda, mentre la cameriera mi pettina, ne mangio la punta, ricoperta di panna acida, e subito la vomito. Sarà la mia anoressia nervosa, oppure il pensiero di un coito imperiale nel labirinto di Schonbrunn.

La scena cambia, mio marito è al piano, suona una marcia funebre. Io lo incoraggio: “Severa! E’ il secondo movimento della tua nuova sinfonia?” “No”, risponde lui, “è il primo! Il quarto invece è un adagetto molto lento come lento si allontana il tempo che separa le
nostre vite”.

Ma già non lo ascolto più perché mi trovo a Berggasse 19, in uno studio medico. Sulla scrivania, in un piatto, è la torta di Demel, io sono su un lettino e rido gioiosamente. Il medico è offeso ma non si arrende e continua a spiegarmi i totem e i tabù. Rido ancora più forte, perdo l’equilibrio e, cadendo dal lettino, la gonna di taffetà si alza scoprendo le mie bianche natiche.

Mentre Herr Doktor mi offre una dimostrazione pratica della sua teoria tabuistica, sento distintamente la crosta di cioccolato che si spacca e la pasta che mi riempe la bocca dai cui angoli cola calda la confettura di albicocche.

Eccomi ora bambina di 17 anni in un studio di pittore nella campagna viennese. Mi spoglio sotto lo sguardo ossessivo dell’artista che mi chiede di stendermi e di allargare le gambe. Obbedisco ma l’ossessione del pittore non è altro che una grossa fetta di Sacher. Sorrido maliziosa e l’artista inorridisce e scappa.

Rimasta sola ammiro le mie lunghe gambe che non sono più nude ma velate di calze da quattro soldi. Sono di nuovo a Vienna, una Vienna grigia, in una stanza grigia. C’è un uomo con me: uno scrittore americano, molto impiccione. La fetta di torta all’arsenico l’attende.

Ma la scena di nuovo cambia. Il faccione di un uomo sorride maligno dietro il vetro di una cabina della grande ruota del Prater, sembra che faccia cucù. Il campo si allarga e la ruota non è altro che un’immensa torta Sacher.

A causa del vorticoso girare, una mollica si stacca e scende nella gola dello scrittore.

Avrei voluto vederlo morire, ma mi dissolvo nella mollica e l’esofago è l’iperuranio che io sento di sognare, non come idea platonica, bensì come parola che non si usa.

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