Una storia di ordinaria quotidianità

Consueta spesa del sabato. La stavo sistemando in macchina quando si avvicina il «solito vu cumprà».

Piccolo, mingherlino, uno scriccioletto. Vestito con un paio di jeans rimediati, come la camicetta a quadri anni ’80. Il sorriso a ottantotto denti in contrasto con lo sguardo malinconico.

Non avevo voglia di tornare a casa, il sole era piacevole e caldo, volevo parlare un po’.

Ho conosciuto Simon, 30 anni, nato nel Ghana, da un anno e mezzo in Italia; venuto su uno di quei barconi che certi consigliano di non far sbarcare e di bombardare.

Il suo italiano non è ancora perfetto, così abbiamo parlato in inglese: Simon è laureato in Ingegneria civile e conosce alla perfezione francese, inglese e tedesco. Proprio come molti italiani che a malapena riescono a dire due frasi smozzicate in inglese.

Simon vive in un seminterrato, in un quartiere di Roma nord, insieme ad altri quattro compaesani; ha permesso di soggiorno, codice fiscale, tutto in regola, ma uno straccio di lavoro più decente non lo trova. Ha fatto di tutto, facchino, lavapiatti, scaricatore ai mercati generali, tutto quello che riusciva a trovare.

Mi ha parlato della famiglia in Ghana, della fidanzata che ha lasciato con dolore; mi ha parlato del terribile viaggio, del buio del mare, del freddo gelido, della paura di morire.

Ci siamo salutati, ho comprato due suoi strofinacci, in ogni caso possono sempre tornare utili.

Simon mi ha sorriso, mi ha stretto la mano e prima di andarsene mi ha detto che ero stata un regalo inaspettato: era tanto tempo che non parlava con un’italiana; quando arriva lui con i suoi quattro stracci da vendere abbassano tutte gli occhi.

Una storia di ordinaria quotidianità.

 

 

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