Verso Marta

Vi presentiamo il miglior racconto del Corso di Marzo 2019, scelto dalla Scuola di Scrittura Valeria Viganò e da La Rivista Intelligente. Complimenti all’autrice, Bernadette Carranza, dalla nostra Redazione.

VERSO MARTA

Santa Margherita Ligure Maggio 1975
Ero arrivata a Santa da poche ore e la bella casa di famiglia mi aveva accolta come sempre nel suo rassicurante abbraccio, una di quelle cose che pensi ti accompagneranno per la vita. L’aria era tiepida e l’odore di mare arrivava forte e pungente tra i profumi della varietà di piante che un antico prozio, elegante scapolo e grande viaggiatore col pallino del Giappone, aveva fatto arrivare da ogni parte del pianeta; quando aveva comprato la proprietà, gli avevano anche dedicato una strada e lui si era divertito a trasformare gli ettari di orti abbandonati in un rigogliosissimo parco abbondantemente fornito di specie esotiche. Magnolie, eucalipti, andromede rosa, giacarande azzurre e palme, tante palme di ogni forma e misura, costeggiavano un lungo viale di ghiaia che scendeva fino al centro del paese. Decine di viottoli pavimentati con lucidi sassetti grigi e mattoncini rossi, si dirigevano in tutte le direzioni ricongiungendosi a valle in uno slargo ombroso circondato da sedili in pietra tappezzati di piccole felci pelose. Al centro rinfrescava l’aria lo zampillo di una grande vasca rotonda coperta di muschio e nascosta tra grandi e umide foglie di alocasia.
Avevo parcheggiato la Mini sotto un grande leccio vicino alle aiuole di bosso che disegnavano il curatissimo giardino all’italiana protetto da una lunga fila di camelie screziate. Quelle stesse camelie, che facevano bella figura nelle eleganti composizioni dei salotti e della tavola imbandita, avevano anche ricamato la corona funebre di mia madre.
“Mamma, ecco sono sveglia” mia figlia, una bimbetta di 5 anni con grandi occhi verdi e ciuffi di capelli ribelli, si stava allacciando le scarpe ancora piena di sonno, con le pieghe sul viso per il cuscino stropicciato su cui si era addormentata. Mi meravigliavo sempre di quanto fosse attenta a ogni mio stato d’animo ma sentivo di non poterlo evitare. Il programma era di rimanere pochi giorni in attesa di suo padre da cui mi stavo separando. Poi Marta sarebbe andata con lui a Serravalle dai nonni e io avrei raggiunto Gabriele a Porto Venere dove mi aspettava sul suo piccolo cabinato a vela; qualche giorno in barca senza la folla estiva mi era sembrata una buona idea per alleggerire il senso di abbandono da cui non riuscivo a liberarmi.
Mentre mi rivestivo per tornare a casa qualche sera prima di partire, Gabriele aveva commentato acidamente la breve convivenza che avrei potuto avere con mio marito. Gli avevo risposto con una punta di ambigua compiacenza, baciandolo sulla fronte, prima di chiudermi la porta alle spalle.
Marta era già sugli scalini dell’ingresso con la sua valigetta a fiori e stava armeggiando per aprire la grande porta a vetri e lanciarsi tra le braccia aperte della Linda, l’allegra vecchia cameriera di mia nonna che, arrivata a servizio poco più che bambina, era rimasta ad accudire il fratello scapolo di mia madre che viveva solitario tra gabbie di canarini e saloni dell’ultimo piano che sapevano di canfora. Una parte della casa dove noi, fin da bambini, si andava solo se invitati. Era stata lei a trovare mia madre agonizzante nella sua stanza al piano ammezzato dopo l’ultima crisi respiratoria, lei aveva cercato aiuto, lei aveva chiamato il fratello che, un po’ vigliacco e un po’ misogino, non aveva osato alzarsi, lei aveva tirato giù dal letto il guardiano Giacomo che era corso a prendere la macchina ma era stato del tutto inutile, l’aveva vegliata fino al mattino per poi telefonare in lacrime a mio fratello. Una corona di camelie rosa, bianche e rosse con i pistilli gialli era appoggiata sulla cassa di legno chiaro nella cappella che aveva allestito per l’ultimo saluto.
In una famiglia dove gli affetti si coglievano per lo più attraverso attente e intime pratiche intellettuali, quella piccola amorevole donna aveva rappresentato senza saperlo, la possibilità di restituire emozioni difficilmente percepibili. Anche grazie a lei avevo potuto superare il disorientamento del lutto in bilico tra consapevolezza e fatalità. Ultra centenaria, ha chiuso definitivamente gli occhi alla Casa Generalizia delle Piccole Sorelle della Carità, una bella casa genovese sulle colline di Rapallo dove era stata generosamente alloggiata in seguito alle disposizioni testamentarie di mio zio.
Marta era già sparita per le ripide scale di servizio dietro ai passi sicuri della Linda e verso le stanze al primo piano aperte per noi dopo mesi di polvere e buio. Avevo chiesto di non sistemarci nel mezzanino di mia madre dove non ero più entrata dal giorno del suo funerale.
“Le abbiamo preparato le stanze cinesi” mi aveva annunciato Giacomo venendomi incontro per caricarsi le valigie. Era un cinquantenne alto e magro, di poche parole e l’aria virile segnata dal sole. Con una leggera zoppia e l’abilità di trovarsi quasi sempre nel posto giusto al momento giusto, era originario di un paesino dell’entroterra ligure. Poco più che adolescente, con l’aiuto del parroco, aveva messo a profitto il suo naturale dono di saper mischiare odori e sapori e, dopo anni di carriera, era stato assunto con successo a bordo di uno dei più lussuosi ketch dell’epoca per soddisfare i palati degli esigenti proprietari e dei loro facoltosi ospiti. Un banale incidente gli procurò sia la zoppia che l’inevitabile licenziamento. Poco dopo, fu assunto da mio zio e in tarda età, una volta tornato al paesello, si sposò con una cugina che lo aveva aspettato per più di 50 anni.
Il grande letto in mogano era il pezzo forte delle stanze cinesi. Con inserti floreali di madreperla per evocare la primavera e la fortuna, portava al centro della testiera 3 ideogrammi che si riferivano a 3 stelle considerate di buon auspicio, prosperità, longevità e felicità. Sprofondai tra i cuscini di raso dai motivi esotici, con la speranza di assorbirne gli influssi benefici. Il leggero fruscio di un respiro e i timidi colpetti di piccole mani curiose mi avevano svegliata, “hai la febbre mamma? perché dormi? dobbiamo telefonare a papà, se no poi non viene”, aveva sussurrato Marta pronta alle lacrime. L’avevo presa tra le braccia, per respirare, tra i riccioli umidi, il suo profumo di bambina. In effetti le promesse di suo padre erano spesso causa di dolorose delusioni. L’anno prima lo avevamo aspettato per giorni fino al tramonto raccogliendo pinoli e intrecciando coroncine di margherite, ma non si era fatto né vedere né sentire. Marta aveva taciuto e la sera ci eravamo addormentate abbracciate. Avevo smesso di chiedergli di amarci e lui aveva accettato di passare qualche giorno con sua figlia. Ero stanca di quel mercato. Marta mi stava regalando la sua sopravvivenza e io, pur amandola di un amore assoluto, inconsapevole, le stavo trasferendo l’intero pacchetto di visioni, di richieste non soddisfatte e di ferite mai guarite, ricevuto a mia volta da mia madre. Avevamo bisogno di allontanarci una dall’altra.
Suo padre arrivò nel sole e nel vento del pomeriggio e lei lo vide felice e bellissimo sulla sua 124 sport spider. Gli saltò tra le braccia e lo riempì di baci. Col naso appiccicato al suo collo, tra la camicia aperta, sentiva il suo odore che sapeva di buono e la paura di perdere il suo amore era improvvisamente scomparsa. Non ne era consapevole ma, in quella vacanza, avrebbe vissuto ore di totale idillio. Cecilia, sua madre, con gli occhi lucidi, era partita il giorno dopo. E’ proprio sui suoi tormenti, nostalgie, trepidazioni amorose che Marta deve essersi fatta le ossa. La sofferenza è una transizione e, se riesci a superarla, diventa la tua prima alleata perché ti conosce meglio di chiunque altro.

Positano – Hotel San Pietro – Luglio 2019
I colori del cielo e del mare sono diversi, meno nitidi, più uniformi, i profumi più forti, prepotenti, ma i rumori delle foglie che scintillano al sole e vibrano al vento sono gli stessi. Comodamente seduta tra i cuscini amaranto di una poltrona nel suo albergo preferito in Costiera, Marta, bella, elegante e con qualche filo cenere tra i riccioli castani, dà le spalle a una grande finestra spalancata sul golfo in una calda giornata estiva. Ha un libro aperto in grembo e legge ad alta voce Aldous Huxley : “L’amore allontana la paura e, reciprocamente la paura allontana l’amore. E la paura non sconfigge solo l’amore; anche l’intelligenza, la bontà, tutti i pensieri di bellezza e verità, l’arma per inibirla è solo l’amore, quel sentimento che può riempirci, proteggerci dai suoi stratagemmi, insegnarci ad amare il tutto di noi.”
Marta, inquieta, aveva cercato di avere tutto. Dove era finito il suo angelo custode o era lei stessa a doversi proteggere? Dopo mesi di dubbi, distratte lontananze e ambigue dichiarazioni, ha deciso di raggiungere suo marito al convegno su Sintesi tra Estetica e Filosofia nell’Arte che lui presiede, con dedicato impegno ed entusiasti riconoscimenti, fin dalla prima edizione. Premuroso e rassicurante lui l’avrebbe raggiunta in albergo nel primo pomeriggio. In questo mondo di scelte, lei sembra aver scelto. Se c’era ancora qualcosa da imparare, a poco a poco l’avrebbe saputo, certamente. Il cielo si sta rannuvolando e una leggera brezza, al profumo di gelsomino, ha sfiorato le sue morbide spalle scoperte. Un sottile brivido interrompe la lettura. “Non è che dell’amore si sia detto e fatto tutto”, Marta ripete a bassa voce, alzandosi verso la porta che si è aperta all’improvviso. (Bernadette Carranza)

 

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