Azzardiamo una temeraria analisi sulle elezioni amministrative romane ancora a metà del guado? Proviamoci, prescindendo il più possibile dalle idee politiche personali.
Prima delle votazioni era diffusa la convinzione che le principali forze politiche non avessero poi tanta voglia di occupare la poltrona più alta del Campidoglio. Troppe grane, città in condizioni pietose, elettorato cinico e disamorato a livelli di guardia, tutto da perdere e niente da guadagnare. Io credo ci sia del vero, in questa visione delle cose; confermata peraltro dalla bassa partecipazione al voto.
Lo testimoniano le scelte dei due principali contendenti (o presunti tali): Il Pd designa l’abbastanza anonimo Roberto Gualtieri, non certo un infiammapopolo. I favoritissimi Fratelli d’Italia tirano fuori dal cilindro lo sconosciuto Enrico Michetti, distintosi in campagna elettorale per numerose gaffes accompagnate dalla clamorosa assenza di un programma. La sindaca uscente Raggi ha combattuto, lei sì, per un’impossibile riconferma, ma il suo coraggio (qui a Roma lo chiamiamo tigna) è apparso ai non fedelissimni del Movimento come l’estremo tentativo di non vedere la sua stella tramontare per sempre nel cielo politico d’Italia, nonché dal terrore di perdere un ottimo impiego.
Resta Carlo Calenda. Il leader di “Azione” era disposto ad affrontare la sventura di diventare sindaco a Roma, ma sapeva che l’impresa era impossibile. Ha ottenuto dunque ciò che voleva: un risultato che colloca la sua lista al primo posto, sorpassando le grandi corazzate Pd e FdI, e prevalendo anche sul movimento fino a cinque anni fa più amato dai romani. Il tutto lasciando i grandi rivali col cerino della sindacatura in mano. Non a caso è quello di Calenda il nome più ricorrente su giornali e socialnetwork.
Chi è dunque il vero vincitore?
Carlo Calenda Elezioni Roma Virginia Raggi